Bambini morti prematuramente: quella presenza di cui dovremmo parlare

di Sabina Pignataro

«Quando mi chiedono quanti figli ho, non so mai cosa rispondere.
Spesso, quasi sempre, dico che ho due figli. Ma è una bugia. Ne ho tre: uno è in cielo, è morto mentre era nella mia pancia. Ma nessuno vuole che ne parli»

Alcuni bambini non si vedono ma non per questo non esistono. Sono morti durante la gravidanza, il parto o appena dopo la nascita. La loro si chiama morte perinatale e colpisce 1 donna su 6 tra quelle che iniziano una gravidanza desiderata. Ma è ancora un tabù. La nostra cultura non si relaziona molto bene con la morte di nessuno, tantomeno quando si tratta della morte di un bambino o di un neonato.

«Intorno alle coppie in lutto c’è una voragine di silenzio quasi mai partecipe - spiega Claudia Ravaldi, fondatrice di CiaoLapo, l’ associazione per la tutela della morte in gravidanza che offre supporto psicologico ai genitori colpiti da lutto perinatale- un silenzio imbarazzato, spesso riempito da ridicole frasi consolatorie (è stato meglio così), da luoghi comuni sulla vita e sulla fortuna (non può capitare due volte, è stato solo un caso), da consigli affrettati (fanne subito un altro!) o da critiche insensate (smetti di pensare a quella cosa lì). Per la società è forte il bisogno di archiviare, negare e “passare oltre”, alimentato dalla falsa credenza che per superare il lutto si debba dimenticare il lutto, la persona amata, ciò che è andato perduto e guardare solo e inesorabilmente avanti».

Racconta la stessa esperienza Francesca, mamma di un bimbo morto alla trentottesima settimana: «Tutti i tentativi maldestri di lenire il nostro dolore erano finalizzati a distrarci, a spostare la nostra attenzione oppure ad accelerare il recupero, affinché tutto tornasse come prima. Ne intuivo (talvolta) le buone intenzioni ma dentro di me odiavo chi mi parlava di ri –cominciare, ri- iniziare, e di tutte quelle parole che iniziano con Ri. Come se ci fosse stata una pausa, una deviazione, uno stop all’autogrill e poi si dovesse ri-tornare in autostrada, per seguire il percorso impostato, per andare dritto». Un’assurdità senza fondamento.

Perché la morte di un figlio atteso è un’indelebile assenza che lascia una cicatrice sul corpo. E anche qualora dovessero nascere uno, o dieci, nuovi fratellini e sorelline, il vuoto resta incolmabile. «Una culla per ogni bambino» dice la dottoressa Xella, psicologa e psicoterapeuta dell’associazione Emdr Italia, che è necessario mantenere, affinché ci sia il giusto spazio per ogni figlio, ciascuno con la sua storia, ciascuno con la sua vita, breve o lunga che sia. Accade a volte che le nascite dei bambini “arcobaleno” (si chiamano così quelli che arrivano a riempire braccia precedentemente vuote) portino con sé uno tsunami di emozioni, in cui si mischiano il passato col presente, il vuoto con la pienezza, l’assenza con la presenza. Altre volte, con gli arcobaleni, i genitori raggiungono un livello insperato di serenità. Ma non funziona mai come quando si gioca a pari e patta.

Anche intorno ai bambini nati morti c’è un silenzio assordante. Per la maggior parte della società questi bambini sono (e dovrebbero restare) senza nome, senza volto, senza identità. La normativa italiana prevede che sotto le 28 settimane di vita intrauterina non siano nemmeno registrati all’anagrafe. Per la legge “non sono”, non sono stati, e dunque non meritano spazio, né riconoscimento.

Un mancato riconoscimento formale che è inversamente proporzionale, invece, al prematuro riconoscimento del feto come individuo, incoraggiato dalle nuove tecnologie. «Diversamente dalle generazione precedenti -spiega Claudia Mattalucci, docente di antropologia all’Università Bicocca che ha affrontato il tema nel libro Antropologia e Riproduzione (Cortina, 2017) - le donne di oggi, che hanno avuto gravidanze precocemente attestate e tecnologicamente monitorate, si confrontano con la perdita di un bambino che non solo hanno concepito ma che, a seconda dell’età gestazionale della perdita, hanno visto attraverso l’ecografia e percepito attraverso una moltitudine di esami diagnostici. Prassi, queste, che alimentano la fiducia nel lieto fine e contribuiscono a rendere più precoce e consapevole il legame con il bambino».

Sviluppi tecnologici e medici ai quali però non ha fatto seguito un’adeguata accortezza nei riguardi delle donne coinvolte. Ancora oggi, quando non si procede con un raschiamento, le mamme sono chiamate a partorire i loro figli morti (dopo la 16° settimana di gestazione) nelle stesse sale parto in cui le altre mamme si apprestano ad abbracciare i loro bambini.

«Ero alla 30° settimana, avvertivo dei forti dolori – racconta Luisa-. Al pronto soccorso mi dissero che non c’era più battito e mi indussero un parto. Un parto vero, intendo. Chiesi di essere stordita. Mi diedero la morfina. Ma non fu abbastanza. Non abbastanza per perdere lucidità. Ricordo tutto. Durante il travaglio le mie le mie grida si confondevano con quelle delle altre partorienti che stavano per avere i loro bambini. Ascoltarle fu una violenza atroce, sommata al cordoglio per la morte di mio figlio. Al termine mi portarono in reparto. Vicino a me le mamme con i loro figli. Io con la culla vuota».

Per Sara P. «il giorno più brutto è stato il primo risveglio a casa. Fino a qualche giorno prima –racconta- prendevo l’acido folico, mi alimentavo bene, mi accarezzavo la pancia, la proteggevo, le parlavo. All’improvviso invece tutte quelle attenzioni erano diventate inutili. Avevo partorito ma non avevo nessuno tra le braccia».

Le mamme raccontano spesso la fatica di confrontarsi con l’assenza di un figlio, reso però presente da una serie di elementi prepotenti e permanenti: non solo la pancia ancora arrotondata, la montata lattea interrotta dalle pillole, tutti i dolori e i sanguinamenti di un post partum ma anche la difficoltà di entrare in certe stanze dove erano state disposte culle, disegni, peluche e vestiti per dovevano servire a dare il benvenuto al bambino.

Anche la prima visita di controllo è uno schiaffo in faccia, quando, di nuovo nude sulla poltrona, il monitor restituisce loro un’immagine grigia e nebulosa che prende il posto del loro bambino. «Mi chiusi in casa per un po’- prosegue Sara- non avevo voglia di rispondere alle domande dei vicini e conoscenti, e nemmeno degli amici. A distanza di tempo, quando ricominciai ad uscire, tutti facevano finta di niente, aspettando che io rimanessi di nuovo incinta, come nella teoria del chiodo scacchia chiodo, sperando di spingere la morte sotto il tappeto e non vedermela più in faccia».

Spesso, di fronte a omertà e indifferenza, alle famiglie non resta che vivere come sdoppiati: fuori, la vita che va avanti, a patto di non parlare della “brutta esperienza capitata”, dentro il logorìo sordo e profondo di chi desidera trovare spazio per il suo dolore e per la speranza di riuscire ad affrontarlo.

Per infrangere questo tabù c’è invece bisogno di rompere il silenzio, di rendere visibile l’invisibile, di trovare gli spazi e le parole per parlare di morti perinatali e di imparare ad ascoltare le famiglie che affrontano questo evento. Un tentativo è stato fatto nel 2014, negli Stati Uniti, dove è stato lanciato hashtag #Breakthesilence in occasione della presentazione di Return to Zero, il lungometraggio americano prodotto da Sean Hanish che affronta la morte in utero e le sue conseguenze sulla coppia, sulla famiglia e sulla società.

Anche se la strada è ancora lunga, molte iniziative sono state avviate. Vedono come protagoniste perlopiù le madri. L’impatto sui padri è ancora sottovalutato e poco esplorato nonostante oggi abbiano più occasioni per vedere e per sentire i bambini durante la gravidanza e per iniziare a sognare un futuro con loro. Luigi è il papà di Samuele, un bambino prematuro vissuto solo una settimana. Per elaborare la morte di suo figlio ha creato un dolcissimo cortometraggio dal nome Koi, usando la metafora delle carpe (Koi, in giapponese) che affrontano il proprio destino lottando con coraggio.

Recentemente anche in Italia si sono costituite associazioni per la tutela della morte in gravidanza che offrono supporto psicologico ai genitori colpiti da lutto perinatale. Quella più attiva è proprio CiaoLapo, fondata da Claudia Ravaldi. Il sito raccoglie materiali informativi a disposizione delle famiglie e del personale sanitario (medico e non); l’associazione collabora con cento punti nascita in Italia, dove mette a disposizione gratuitamente per le famiglie in lutto e per gli operatori un breve manuale di psicoeducazione sul lutto perinatale, Piccoli Principi, e un vademecum pensato per gli operatori sanitari, che sarà scaricabile gratuitamente in ebook fino al 31 Ottobre.

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