Anche se le imprese dei grandi Paesi europei - spesso e fisiologicamente - entrano in conflitto tra loro, le organizzazioni imprenditoriali di Italia, Germania e Francia stanno provando ad imbastire una linea comune, sulla quale in particolare sta investendo il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia: «La regola che invocano i francesi nei confronti dell’Italia sulla questione-Fincantieri in realtà andrebbe utilizzata dall’Europa nei confronti del mondo esterno. Perché dobbiamo convincerci che la competizione non è tra i Paesi dell’Unione ma tra questi e il resto del mondo. Se la competizione è questa, allora possiamo combattere ad armi pari: costruendo campioni europei».

Su questo siete d’accordo con le organizzazioni “sorelle” degli altri partner europei? Dopo aver intensificato i rapporti con Confindustria tedesca e con quella francese si può immaginare una pressione sui governi per evitare conflittualità dannose o addirittura una iniziativa comune?

«Stiamo lavorando in questa direzione. Abbiamo condiviso con la Bdi tedesca la centralità della questione industriale in Europa, l’importanza della quarta rivoluzione industriale, la necessità di affrontare la questione bancaria partendo dalla garanzia comune dei depositi bancari. E con il presidente della Medef francese, che abbiamo incontrato nei giorni scorsi a Parigi, stiamo sulla stessa linea di pensiero. A partire dai principali Paesi manifatturieri – Germania, Italia, Francia –, cui si aggiungeranno presto anche altri. Stiamo ponendo la questione industriale a livello europeo: un’Europa industriale con una visione economica comune. Per il 29 agosto i francesi di Medef hanno invitato le Confindustrie italiana e tedesca ad un loro importante convegno».

L’improvvisa tensione tra i governi di Italia e Francia non va in una direzione diversa?

«Non va nella direzione dell’Europa che immaginiamo. La competizione non è tra i Paesi dell’Unione ma tra tutta l’Unione e il resto del mondo. Tra l’altro, l’operazione Fincantieri va nella direzione dell’impresa europea che dobbiamo imparare a costruire anche per i benefici effetti strategici che comporta».

In Francia ha ripreso vigore il “patriottismo economico” anche perché ora c’è un governo forte e da noi meno?

«Non sapremmo dire se la decisione di nazionalizzare Stx sia frutto di un governo forte. Ci sembra, piuttosto, di un esecutivo in cerca di consenso. La decisione assunta in precedenza con Fincantieri era quella giusta. Un governo davvero forte non la cambia per compiacere gli umori interni del Paese. Vorremmo che Macron dimostrasse anche in questo caso l’europeismo che ha messo nel programma che gli ha fatto vincere così bene le elezioni determinando un effetto positivo nell’intera Unione».

L’ iniziativa, ancora embrionale, delle associazioni imprenditoriali è sospinta anche da una serpeggiante tentazione al protezionismo e al ritorno alla presenza dello Stato dell’economia anche in Paesi di cultura liberista?

«Dobbiamo assolutamente evitare che per ragioni di opportunità interna e mancanza di visione si vada verso pratiche di protezionismo perché al protezionismo degli uni si aggiungerebbe quello degli altri, con conseguenze assai negative sulle economie di tutti. Proprio in occasione del B7, che riunisce i principali Paesi industriali del mondo, tutte le Confindustrie partecipanti, compresa quella degli Stati Uniti, si sono espresse a favore del libero scambio e contro i protezionismi. Uno dei padri dell’Europa, il francese Jean Monnet, diceva: “I miei obiettivi sono politici, le mie spiegazioni sono economiche”. Se l’obiettivo politico è realizzare una grande stagione riformista europea a partire dall’economia non si può agire come la Francia vorrebbe con i cantieri Stx».

Nel comunicato del recente G7, su iniziativa americana e francese, si è fatto riferimento ad un mercato “giusto”, oltreché “libero”, che è la definizione tradizionale. Gli Stati si riprendono spazi in settori strategici?

«Siamo convinti che il mercato debba essere aperto e libero, quindi siamo contro ogni forma di protezionismo, ma anche corretto, nel senso che bisogna combattere ogni forma di concorrenza sleale».

Gli altri fanno i loro interessi, ma da noi i progressi dell’economia reale le pare che preannuncino una svolta?

«In Italia non sappiamo raccontarci. Abbiamo approvato la migliore riforma delle pensioni, il Jobs Act, l’impianto di Industria 4.0 mentre altri Paesi, come la stessa Francia, sono indietro con le riforme. È vero, abbiamo molti problemi da fronteggiare, ma l’aumento dell’export, degli investimenti e finanche dell’occupazione sono fatti dei quali dover tener conto. Con l’alibi della politica debole perdiamo di vista i nostri punti di forza ed esaltiamo soltanto i punti di debolezza. I comportamenti dei ceti dirigenti del paese si riflettono sui nostri giornali e dobbiamo comprendere che all’estero ci leggono e ci conoscono anche per come ci rappresentiamo noi stessi. Se corriamo un rischio serio è smantellare le riforme prim’ancora che abbiano raggiunto gli effetti previsti. Ma perché questo non accada occorre vigilare».

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