Se faccio un figlio lo chiamo Precario

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www.oinesalerno.wordpress.it oinesalerno@gmail.com Facebook: Oi ne’ - Esperimenti Provinciali edizione: gennaio 2016 hanno scritto e collaborato Carmine Apostolico, Maria Angela Citarella, Giuseppe Criscito, Sara Di Bianco, Marco Giordano, Marco Mastrandrea, Felice Rubino, Francesco Savastano, Emanuele Siano, Salvatore Tancovi.

responsabile editoriale e progetto grafico Marco Mastrandrea copertina Feliciano Lambiase correzione bozze Giovanna Pentella Felice Rubino le opere di “Arte intermittente” sono a cura di Bhone, Franko Carillo, Nunzio Maccioni, Nutty Trapanig Se faccio un figlio lo chiamo precario è un’opera collettiva a cura di Oi ne’ - Esperimenti provinciali. Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.


sommario nota collettiva 7

• titoli di testa Leggera, dove vai? 11

sabato 45 Sara Di Bianco Francesco Savastano domenica 50 Carmine Apostolico

•• arte intermittente

lunedì 54 Maria Angela Citarella

••• la settimana precaria

•••• titoli di coda

lunedì 26 Salvatore Tancovi

lo struscio 59 Marco Mastrandrea

martedì 30 Marco Giordano mercoledì 34 Giuseppe Criscito giovedì 37 Felice Rubino venerdì 40 Emanuele Siano


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nota collettiva Gentile Lettore, siamo contenti di ritrovarti qui con noi. Questo secondo prodotto editoriale fa sempre parte del lavoro del collettivo culturale Oi ne’ – esperimenti provinciali. Questa volta proviamo insieme a tracciare un prima linea di narrazione su un tema particolarmente fumoso: la Precarietà. Praticamente, dalla dimensione orale dell’iniziativa “Se faccio un figlio lo chiamo Precario” del 27 dicembre 2015 al circolo Arci Mumble Rumble di Salerno passiamo alla dimensione scritta condividendo otto testi inediti in forma diaristica che costituiscono la settimana precaria (dal lunedì al lunedì: come pedine del Monopoli, si è costretti a ripassare dal Via!). Otto testi che cercheranno di raccontare la precarietà di chi non riesce ad immaginarsi un futuro al di là del proprio contratto a termine. Una condizione che si ripercuote sugli affetti, sulla costruzione della propria identità: sempre più insicura e incline a gesti spettacolari e estremi.

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Questa seconda sfida nasce in continuità con il primo e-book “Capitale periferia” che si è trasformato in un libro vero e proprio, distribuito mano mano nel corso della serata. Abbiamo aggiunto per ogni testo una colonna sonora suggerita dal collettivo. Puoi ascoltarla, se ti va. All’interno troverai anche nuovi compagni di viaggio sotto la voce “arte intermittente” che hanno realizzato una serie di opere tematiche durante la lettura di Precario diario.

d’ascolto che sviluppiamo verso ciò che non conosciamo e che ci spaventa la chiave per resistere a ciò che di disumano caratterizza la nostra società. È per questo che il nostro approccio sarà di continua sperimentazione e ricerca. Non possiamo permettere che il dialogo con il nostro spirito critico venga interrotto da spazi sempre più chiusi ed asfissianti, tempi senza un passato ed un presente, relazioni vuote di fiducia e di domande. Il collettivo Oi ne’

Noi non ci fermiamo qui: l’idea è continuare ad incontrarsi per sperimentare linguaggi e modi di raccontare la precarietà. Lo faremo attraverso momenti di condivisione, di dibattito e di analisi ma anche attraverso progetti narrativi più strutturati che possano includere nuove sensibilità. Non abbiamo grandi desideri se non quello di incontrare menti che possano affiancarsi al nostro cammino e stimolare il nostro sguardo. Con gli anni che passano abbiamo compreso una verità essenziale quanto ovvia: è nel valore delle relazioni che costruiamo, negli affetti che manteniamo in vita dentro di noi, nella capacità

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• titoli di testa

Leggera, dove vai? colonna sonora: La leggera - Ginevra Di Marco

Il lunedì la testa mi vacilla, oi che meraviglia, non voglio lavorar È così che fa il primo verso del brano “la Leggera”, un canto antico appartenente ai contadini che si recavano in Maremma per una stagione di lavoro. Viaggiavano in treno, un convoglio realizzato apposta per loro chiamato, appunto, Leggera, ad indicare la condizione sociale, di povertà assoluta, dei lavoratori. In condizioni inadeguate e precarie nasce questo pezzo che smonta l’idea sacra del lavoro, visto come un male da cui rifuggire. Alla fine della domenica si aspetta sull’uscio il padrone ed il salario ma resta solo un’altra settimana senza soldi passata a riposare. Il martedì poi l’è un giorno seguente Io non mi sento di andare a lavorar A questo punto, nasce PreCar(i)o Diario, una confessione intima e collettiva allo stesso tempo. Come quelli della Leggera, alcuni di noi hanno 10

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viaggiato da un posto all’altro senza meta per trovare qualche opportunità in più, anche noi in treno, precisamente un treno regionale, che costa meno. Altri non sono mai partiti e hanno cercato dentro la realtà della propria città uno spazio vitale, dignitoso, dove crescere, formarsi e magari guadagnare.

lungo la linea temporale della nostra crescita. Come Achille, dotati di grandi potenzialità e determinati a lottare, viviamo nel paradosso della tartaruga insuperabile. Un piccolo e verdognolo animaletto, lento, vecchio, rugoso, increspato di cui conosciamo solamente guscio e coda che limita la lunghezza focale dei nostri sguardi.

Il mercoledì poi l’è un giorno di baruffa Io c’ho della ciucca non voglio lavorar

Il venerdì poi l’è un giorno di passione io che son cattolica non voglio lavorar

In bilico perpetuo, come la carrozzina dell'epico film “La corazzata Potemkin” percorriamo la quotidianità delle nostre vite senza avere davvero il controllo della dire- zione verso la quale ci stiamo incamminando. Spinti dalle molteplici forze che si battono attorno e dentro ognuno di noi, come spettatori paradossalmente partecipi, subiamo e colpiamo in questa eterna lotta per l’autonomia, il benessere e la tranquillità.

E allora, per Dio, il treno della nostra giovinezza viaggia in direzioni indesiderate, il lavoro è solo un pretesto per quietare le marginalità emotive e razionali in cui siamo incastrati. Qualcuno scende prima del previsto e ruba un’auto, qualcun altro lascia la compagna e prende un aereo, qualcuno scende e in bicicletta gira per le campagne, qualcuno si addormenta e dice “Non svegliatemi, sono stanco di aspettare, oggi sogno di non arrivare mai”.

Il giovedì poi l’è festa nazionale il governo non permette ch’io vada a lavorar E allora, nell’instabile universo della precarietà, come particelle altrettanto instabili corriamo

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Il sabato poi l’è l’ultimo giorno oi che bel giorno non voglio lavorar E allora il tempo passa, senza passare per le fer-

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mate giuste. Se un tempo ogni scusa era buona per non lavorare, oggi accettiamo qualsiasi scusa per lavorare: sottopagati, sfruttati, illusi e frustrati. Qualcuno a bordo è fiducioso, dice che il treno va ma Felice non ci sta e non va a lavoro, Carmine va allo stadio, Marco non scriverà l’articolo, il dottor Fiorito festeggerà da solo ed Emanuele ha le convulsioni per il macigno inutile da trascinare. Mariangela non rinnoverà la Carta di Identità, Francesco berrà un altro bicchiere di vino, Salvatore resterà studente fuorisede. Noi siam della leggera e poco ce ne importa vadan sull’ostia la fabbrica e il padron! E allora siamo pesanti e tutto diventa importante, determinante. Un computer che si rompe, una bolletta non prevista, la chiusura del discount a basso costo, la perdita dei documenti, l’assenza dell’accendino, i vizi a cui badare. E la fabbrica e il padrone vanno, mentre noi restiamo qui abbandonati come se non ci fosse più niente al mondo in questo treno che non conosce né andata e né ritorno.

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•• arte intermittente


• Lungimiranza artista: Nunzio Maccioni tecnica: Acrilico su tela 50x40, 2015 contatti: pagina facebook


•• Untitled artista: Nutty - T r a p a n i g contatti: pagina facebook


••• Precarietà artista: Bhone tecnica: Mista su tela 70x50, 2015


•••• artista: Fanko Carillo contatti: pagina facebook


••• la settimana precaria


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lunedì colonna sonora: King Krule - Easy Easy

Precario Diario, la cosa buona del lunedì sono i tubettoni con il ragù avanzati dalla domenica prima, può darsi che se mi sbrigo a tornare a casa ne trovo ancora. Ho preso il treno alle 7 e 20 apposta per non fare i piatti qui a Roma, nella mia bella cucina dove Riccardo e i suoi amici calabresi si sono fatti la pasta e ceci alle 4 del mattino, con gli occhi rossi dei fumati cronici, che quando ho aperto la porta per vedere se erano vivi mi hanno fissato come degli animaletti selvatici sorpresi nel bosco dai fari di una macchina. Sono salito a Roma per trovare qualche possibilità in più, almeno così ho detto in giro, poi ho trovato Riccardo buttato sul divano con la sua maglietta Calabria Saudita e ho capito che ero più a sud di quello che pensavo. A parte questo, continuo a dire in giro che a Roma ci sta questa famosa possibilità in più, tanto è vero che appena sono salito si è liberato il posto

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da Sindaco, che mi sembra quanto meno un fatto foriero di dinamismo, di buona speranza. Questa storia del precariato, questo dover sentire la labilità di una pressoché assente stabilità economica, politica, sociale, ecco, io continuo a sentirmi estraneo al fatto. Mi sento (a voler precisare il più possibile come mi sento) come l’ottuso Candid di Voltaire che diceva “questo è il migliore dei mondi possibili, tutto ciò che esiste ha una ragione d’esistere, ad esempio i nasi servono ad appoggiarvi gli occhiali, e infatti noi abbiamo degli occhiali”. Quello che trovo più ostico da accettare, diciamo anche doloroso, mio Precario Diario, è l’assenza di fiducia in un’intera generazione. È come se ogni giorno in questo Paese si ri-petesse la medesima patetica scena di questo lunedì alla stazione, ossia: io che finisco di chiudere una sigaretta di tabacco, metto la mano in tasca per cercare l’accendino e non lo trovo; mi avvicino a questo uomo brutto in faccia, con il peso disgraziato di chi si sfonna a tavola, con questa tuta del Napoli aderente che gli fa le classiche zizze degli obesi, e questa Pall Mall blu che gli fuma in bocca, che sembra una ridicola proboscide rispetto all’elefante sgraziato che è.

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Educatamente gli faccio “scusi mi fa accendere?”, lui fa solo cenno con la testa, mette la zampogna lardosa nel borsellino e tira fuori un piccolo clipper, lo accende e mi avvicina la fiamma alla sigaretta, sicché io mi avvicino e resto in quest’attimo di sospensione precaria dove mi accendo il drummino, lo guardo e gli tiro un “grazie” stitico. Per me questo dovermi costringere ad accendere ma “da mano a te” non è altro che il metro di misura di una sfiducia totale, dilagante, della serie che tutti al telegiornale dicono che i giovani sono il futuro, che bisogna aiutarli, incoraggiarli, finanziarli e poi non gli si fa fare manco una tirata di sigaretta con la paura che si fottano l’accendino. Forse è per questo che esiste il precariato, per paura del bene comune, del benessere diffuso, di tutele trasversali, del salario minimo, dei contributi versati, delle ferie pagate, dell’assicurazione sanitaria, della pensione. Banalmente, il precariato esiste perché chi ha l’accendino ha paura che noi ce lo fottiamo. Candid diceva pure “Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno”, ma Precario Diario, oggi è lunedì e non ho proprio voglia di cercarmelo un lavoro. Torno a casa, faccio il presepe, mi guardo il bam-

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binello che a pensarlo sotto quella capannella mi pare un po’ precario pure lui, così scaccio la noia e, riguardo a vizi e bisogni, credo che continuerò ad accendere da mano alla gente, assicurandomi di ciccare causalmente sui pollici del maiale di turno.

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martedì colonna sonora: Genesis - Firth Of Fifth

Precario Diario, il martedì è un giorno che di sbagliato ha già il nome. Andrebbe scritto con la “o” non con la “a”. Oggi inizia un’altra interminabile settimana in cui non avrò nemmeno il tempo per accorgermi quando sarà finita, che arriverà già il prossimo mortedì. E pensare che lavoro per un quotidiano e non riesco nemmeno più a portare la conta dei giorni. Lavoro, che bella parola, riempie tutta la bocca. A dirla così mi immagino vestito con cravatta a nodo largo, lasciata leggermente sciolta su una camicia bianca un po’ sbottonata e un pantalone scuro, modello orgogliosamente non accostabile ad una tuta. Con quello che mi pagano non mi ci posso comprare manco i lacci di una tuta. Poi dicono che indosso sempre quella. Ma che vuoi farci? Funziona così, la chiamano gavetta. Un altro termine sbagliato a mio avviso,

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basterebbe quel “one” finale per rendere fedelmente l’idea della sensazione che si prova al momento di controllare il bonifico mensile. Una doccia fredda a gennaio procura più sollievo. Però prima o poi ti abitui, i soldi non sono mica tutto. Ciò che viene prima della grana è la gratificazione personale. Sì, perché sul mio contratto c’è scritto “cessione di opere di ingegno”, un’intelligenza a cui viene riconosciuta un tale pregio da dover essere messa al servizio del grande pubblico della stampa. D’altronde l’intelligenza ha un valore inestimabile, ma un prezzo di mercato molto basso evidentemente. Sta squillando il cellulare. Adesso inizia a salirmi l’ansia. Meglio spegnere un attimo l’ingegno. No, aspetta, quello mi serve, nel caso fosse il mio redattore. Quali dei tanti? Spero non Giorgio. Nemmeno Nino. Preferirei fosse mia madre. Quando mi contattano dalla redazione sudo freddo come un sedicenne la sua prima volta. Domenica mi telefona Giorgio alle 14:30, per dirmi di essere alle 15 precise in Comune, alla conferenza stampa dell’Assessore Solenghi. In realtà era una rassegna di cinema su Tullio

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Solenghi alla Sala Comune del Centro Sociale “Solitarium”, nella periferia industriale a 15 km dal Comune, dove ero arrivato tanto sudato da sembrare appena uscito da un gavettone (eccolo che ritorna). Quando telefono per spiegazioni Giorgio risponde che Nino gli aveva detto così; dalla scrivania di fronte per sms Nino mi scrive “non so chi ti abbia dato indicazioni, però sarà per la prossima volta”. Una volta molto prossima, perché alle 18:30 mi arriva una mail, avevo dimenticato di disattivare le notifiche. “Ciao Marco, sono Nino, dato che ormai sei libero, ti giro questi dati sul precariato, ci servirebbe un pezzo sempre per domani, terza pagina, facci sapere che ne può uscire, ti raccomando solo dati sulla città”. L’allegato è un file Excel con 30 fogli di lavoro, ogni foglio 151 righe, in tutto 112 tabelle. Ho trascorso due ore a lavorare sui dati tentando di cavarne fuori un’analisi più approfondita, in modo che i lettori potessero capire a fondo il problema sociale che rappresentano quei numeri, un problema a loro vicino più di quanto credano.

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È questo che fa un giornale, giusto? Alle 20:30 tre messaggi di Nino che chiedevano se avessi finito. Non ricordo esattamente quando ho detto in redazione di essere IronMan. Alle 21:30, sotto continue pressioni telefoniche, invio il mio articolo di 4080 battute. “Marco non serve più grazie, a domani”. “A domani, sotto il portone. Porta due pale e un sacco nero capiente” avrei tanto voluto rispondere. Ad ogni modo era Giorgio al telefono. Mi ha inviato due mail con alcuni dati di Confindustria sulla disoccupazione. Credo che uscirò, farò le mie cose, e stasera per le 8 gli butto giù 1800 battute, tanto mi pagano dalle 1500 in su. Risale il rimorso, peggio di una peperonata indigeribile. Perché i lettori dovrebbero leggere immondizia se io non lavoro bene? Non mi fanno lavorare bene. Ma questo il lettore non può saperlo, e chissà se mai lo saprà. C’è un articolo che aspetta. Buon inizio settimana, PreCario diario.

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mercoledì colonna sonora: Kaos - Le 2 Metà

Precario Diario, sbarro gli occhi. Quel peso mi schiaccia il petto. Lo so già cos’è, niente di strano, è metà settimana. Quel giorno subito dopo il martedì e subito prima di giovedì. Metà della settimana dove già sai che se è iniziata ‘na merda non può finire che peggio e che se è iniziata bene è qui che si guasterà. Perché a metà settimana ho già finito ‘a pacienz. Per il lavoro che mi fa arrivare giusto a metà del mese. Per i colleghi, a cui fino ad oggi ho dispensato sorrisi a metà. Per le amicizie a metà con persone che metà delle volte non t’ascoltano manco. Per la relazione che ho con quella che ho conosciuto a metà di quest’anno, mentre la mia vera metà l’ho lasciata a casa mia, nella città dove nacqui e dove non tornerò. Per l’attesa della fine, della settimana intendiamoci, che metà delle volte è spiccicato tale e quale a tutto il resto della settimana. Per me stesso, perché ho iniziato la

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metà delle cose che avrei voluto e per giunta le ho lasciate a metà. Lascio il panino a metà, oggi non c’ho molta fame. Metà della pausa pranzo la passo alla panchina fuori all’ufficio. Metà dei vecchi passa metà della giornata a guardare cantieri lasciati a metà. Metà dei negozianti abbassa la saracinesca per metà, anche loro vanno a pranzo. Metà dei ragazzini del quartiere gioca con un pallone mezzo sgonfio. Metà delle madri aspettano i figli con la tavola mezza pronta affacciate al balcone urlando nomi a metà. Ci pensavo. Metà del tempo che viviamo lo passiamo a pensare le cose che vorremmo fare, che vorremmo avere, senza farle e senza averle. E forse è normale, probabilmente necessario. Perché della metà delle scelte che prendiamo poi ce ne pentiamo. Metà dei luoghi che frequentiamo ci annoiano. Metà delle persone che frequentiamo si rivelano manco la metà di quelle che sono, che dicono di essere. Ci vuole tempo. Che qualcuno e qualcosa ha pensato fosse futile, accessorio, di un mondo fatto

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d’oggetti, di cose palpabili, di cose comunque lanciate verso il nulla. Anche loro, decidendo, c’avranno pensato metà del tempo che ci voleva. Metà serbatoio. Per ritornare a casa c’ho messo la metà del tempo. Poco traffico nella città dove metà delle persone parcheggia in doppia fila, metà dei semafori sono sempre e comunque gialli e dove metà dei pedoni non sia mai attraversasse sulle strisce. Tiro fuori le chiavi di casa. Metto nella toppa metà della chiave. è così che si apre. La casa è per metà in disordine. Mio nonno ha passato metà della sua vita a lavorare la terra, a immergersi nelle miniere, ad abbattere e ricostruire palazzi. L’altra metà a godersi ciò che aveva messo su, ad aspettare la metà dell’anno per sedersi a tavola con tutti, a fare la metà della parte più bella del fare il papà. Mio nonno, alla fine della sua vita, mi disse: “Caro mio, sono pienamente, interamente, felice.” Metà torta sta ancora sul tavolo della cucina. Per metà giornata non ci avevo pensato. È il mio compleanno. Tanti auguri signor Fiorito. Buoni cinquant’anni.

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giovedì colonna sonora: Sentenced - Mourn

Precario Diario, ho dovuto farlo, era l’unica cosa accettabile nell’andare del cosmo, oggi dovevo fare filone. L’ho sempre odiato il giovedì, da quando in terzo liceo scientifico dovevo sorbirmi due ore di matematica e una di fisica, che poi, vaffanculo, ho preso filosofia. Che cazzo di giorno è il giovedì? Per un po’ me lo sono domandato spesso e domandavo anche agli altri “provi qualcosa di particolare per il giovedì?”. Le risposte che ci davamo erano tutte inconcludenti. Il giorno di Zeus sembrava essere senza connotazione particolare alcuna. A me questa cosa dava un fastidio terribile, ci riscontravo l’indifferenza e l’indeterminatezza degli artificiali frazionamenti temporali umani. E poi tre ore di coseni, moto vario ed ellissoidi hanno contribuito ad alimentare in me l’odio per il giovedì. Così decisi di non voler fare un cazzo ogni giovedì, trasformarlo nella mia domenica

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personale. All’università è stato facile, potevo fare un po’ quello che mi passava per l’encefalo, bastava dare qualche esame a stagione. E chi mai avrebbe potuto immaginare che non sarei più riuscito a concepire di fare niente in questo giorno? Il bisogno di riposo infrasettimanale è nato e si è ingigantito in me al punto da portarmi a fare filone anche oggi. Sono tre settimane che ho preso questa supplenza a Brescello, a settecento e rotti chilometri dal mio pezzetto di Mediterraneo, la mia prima esperienza di formazione attiva. Ma questo lavoro già mi ha stancato, cinque lustri di studio più due anni di preghiere a San Democristiano per arrivare ad apparire su una cattedra, nottate insonni a immaginarmi formatore di giovani menti, scopritore di talenti, in poche parole insegnante. E dopo una manciata di ore di lezione mi accorgo che anche questo è un lavoro. Maledettamente, nonostante tutte le mie azioni mirate a cambiare l’ordine delle cose non mi hanno nemmeno dato come giorno libero il cazzo del giovedì.

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E allora, suonata la campanella delle otto e un quarto mentre stavo per attraversare la soglia scolastica gli ho dato la schiena andando a ricercare il senso che le persone danno al mio giorno maligno, il senso del mio desiderio destrutturante di riposo. A detta del salumiere che forse vende più pecorino, o del fioraio che forse vende di meno o del vigile che conta meno svolte a destra, il giovedì è un giorno del cazzo che si determina per esclusione di caratteristiche peculiari. È stato così che oggi, mentre facevo il mio primo, e forse ultimo, filone da professore ho mutato la domanda per spiegarmi questo giorno infausto, quindi chiedevo con tono risoluto alle facce impegnate per strada “sei mai stato felice di giovedì?”. Molti cambiavano strada, altri rispondevano di non averci mai fatto caso, alcuni rimanevano perplessi pensando alla felicità, ma una signora dagli scialli pesanti mi ha dato pace con un perentorio No.

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venerdì colonna sonora: Stevie Wonder - Too high

Precario Diario, faccio un respiro profondo e l’aria che sento è sacra. Ho gli occhi chiusi, sono seduto e ho le mani tese su di un oggetto. Lo tasto, lo sento ruvido sotto le mie mani, forse è pietra lavica ma la sensazione è familiare, sembra un pezzo della mia realtà. Apro gli occhi, di fronte a me un masso, non molto grande, con la circonferenza metà del mio braccio, posso praticamente abbracciarlo. Alzo lo sguardo, sopra, una montagna, ripida, davanti e sotto una strada che porta in cima. Non ho neanche il tempo di immaginare che un pensiero fuori di me mi invade e diventa obbligo: devo trasportare il masso in cima. Inizio incosciente lo sforzo, faccio i primi cento metri ed il masso è diventato alto quanto me e dopo un altro centinaio di metri è già un macigno. Il mio corpo e la mia mente non sono più umane,

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sono tutt’uno con il macigno. Il viso è contratto, il respiro è in affanno, quasi urlo dalla fatica; la gota appiccicata contro la pietra, le mie due mani sono graffiate e livide. Lo sguardo è basso, tutt’intorno rumori e suoni confusi. Posso percepire altre urla ma il macigno mi distrae continuamente, io sono cosa sua, devo proseguire la salita. I muscoli si contraggono, l’acido raggiunge le gambe e le braccia, la mente pulsa senza sosta, il macigno è enorme e mi sovrasta, ha raggiunto quasi il triplo della mia altezza. Un ultimo sforzo, lo sento, ed eccomi in cima, sono arrivato. Il macigno raggiunge un suo punto preciso, sembra conoscere già la sua posizione e, simultaneamente, anche io comprendo cosa accade. Intravedo dall’altezza raggiunta altre montagne, ma neanche il tempo di guardarmi intorno un rombo spaventoso mi rapisce, è il masso che ricade all’inizio della strada e il mio corpo è attirato lentamente verso il basso. Chino la testa, inizio a scendere. Sono condannato a trascinare continuamente questo macigno alla vetta e a vederlo ricadere per l’azione del suo stesso peso? La discesa è peggio della salita, ripercorro per

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l’ennesima volta la strada e, d’un tratto, mi sveglio: è venerdì. Il giorno, che differenza fa? Mi chiedo, ancora confuso dal sogno. In un altro, mesi fa, mio padre impersonava la figura di Jung e mi diceva che i sogni sono importantissimi e vanno interpretati. Una piccola porta occulta che conduce alla parte più nascosta e intima dell’anima. Non ho tempo, non ho tempo, devo alzarmi e mi tremano le mani dalla fatica, ho ancora la sensazione del macigno tra le braccia. Come ogni fine settimana senza sfoghi, il mio risveglio è fatto di brevi spasmi, li chiamano movimenti muscolari incontrollati, dicono siano dovuti allo stress. Credo che allo stesso motivo possa ricondurre la lingua rimasta, stretta, per ore, nella morsa tra mandibola e mascella, oppure l’emicrania che mi preme alle tempie, oppure l’aritmia che mi gonfia il petto di ansie, oppure le vistose borse viola sotto gli occhi che fanno da contrasto al bianchiccio colore del mio viso. Mi alzo ma il letto non è il mio, infatti mi giro e c’è mia madre, ma non ho neanche il tempo di chiedermi perché cazzo mi trovo nel letto dei

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miei. Ogni giorno, per me, è come ricominciare la settimana; oggi pomeriggio, in particolare, ho un turno di 4 ore in ufficio, ma ho anche l’organizzazione settimanale dei contenuti per un complessivo di 48 articoli. Inoltre c’è sempre qualcosa da fare, ne sento il richiamo e infatti ho in arretrato quattro articoli per il sito internet e sei persone che mi hanno scritto per mail a cui rispondere. Non lo dimentico, non lo dimentico, ho tutto scritto sui miei quaderni. Scritto e cancellato, come una lista della spesa. Ho fatto colazione e l’sms che mi è arrivato mi ha ricordato che parto domani alle sei e fino a lunedì pomeriggio sono a Milano per un Congresso, poi, il mercoledì successivo, sarò a Roma per un seminario. Ho solo voglia di arrivare in cima a tutti questi pensieri ma in realtà arrivo solo al pranzo, mia madre ha presentito qualcosa nella mia scontrosità, nel mio broncio e nel mio digitare ricurvo sulla tastiera. Mi ha preparato spaghetti con le vongole. Accenno un breve sorriso prima

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di ricordarmi di essermi dimenticato di inviare i comunicati stampa e di stampare gli attestati. Tiro un deprimente pugno sul tavolo e ho già voglia di tornare a letto. Mi sparo due film, una serie e mi do malato. Sento il richiamo della vetta e del macigno che mi rapisce. Mi dà giusto la forza di vestirmi e di avviarmi a lavoro.

sabato colonna sonora: Massive Attack - Paradise Circus

Precario Diario, domani non mi vesto. Non mi vesto mai di domenica. Domani riposo. Sì, riposo. Mi scusi se mi verso un po’ di birra? Sì, birra. Era in frigo. Era di Nicola, e allora? Ripenso alla mia serata, caro diario. Stamattina ho lavorato. Ma poco, davvero. Oggi, poi, ho dormito un po’, ho scritto qualche post. Ho lavorato. Sì, è lavoro anche quello. Non è letteratura certo, ma… Metto un po’ di musica elettronica, ti dispiace? E bevo un po’, è sabato sera. Non guardarmi così, Precario Diario. Dicevo, ripenso alla mia serata. Sono uscito stasera. Il sabato si esce. Perché la domenica, poi, si dorme. Vabbè, domani un paio di post li scrivo, mi pagano a battute. Ma solo un paio. Stasera, ti dicevo, esco. Passo a prendere la mia

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ragazza. Scusami, ricomincio. Passo sotto casa della mia ragazza e poi dritto al bar. Un bicchiere di vino, offerta la degustazione. E fredda, anche. Alla seconda hanno azzardato il microwave, glielo chiedo io. Piatti di stuzzichini freddi. O al microonde, mio caro diario. È l’età contemporanea.Tutto veloce, anche il gusto è sintetico. “Prendi la bottiglia, di vino” suggerisce la cameriera, “Conviene”. Beh, sì, penso, conviene. “Tanto lo prendi, poi, il secondo bicchiere, no?” Beh, sì, anche il terzo, penso. “Gli stuzzichini li porto lo stesso, anche con la bottiglia!” Allora li porta lo stesso gli stuzzichini, Precario Diario. “Sì, una bottiglia, grazie”. “Che fai nella vita?” attacca la cameriera, con in mano l’apribottiglie. Mi parla, caro diario, parla. “Un po’ di cose (come spiegare, precario diario?). Mi occupo di …comunicazione (e che significa, mio Precario Diario?)”. “Bello”. Risponde. Con uno smile, caro diario. Continua, “io sono un ingegnere”.

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“Come?” le chiedo. La cameriera fa l’ingegnere caro diario. “Il vino, se prendi questo qui, è in offerta. Apro?” “Sì, sì. Dove vivi?” Le chiedo. “Al di là del fiume.” “Ma è lontano! E come mai sei qui?”. “Beh, ci lavoro”. Ma è lontano, penso. “Dove lavori tu?” fa lei. “Io un po’ in giro, al di qua del fiume”. “Bello. Ma scrivi anche? Vedo il portatile”. “Scrivo, anche. Sì e altre cose. Faccio… eventi (odio dire eventi, Precario Diario. Perché ho detto eventi?)”. “Bello. Invitami, allora, no?”. “Dove? ”. “Agli eventi che fai”. Sorride. “Ah, giusto. E ci vieni al di qua del fiume? Per gli eventi, dico. Sono sempre al di qua del fiume”. “Certo, io ci lavoro al di qua del fiume”. “Giusto” dico. In fondo siamo al di qua del fiume. “Sono ingegnere, ricordi? Te l’ho detto un minuto fa. Lavoro in un’azienda giù al fiume”. “Ah, sì, giusto. E che ci fai qui allora?”. “Qui servo ai tavoli. Se no come faccio a “mantenermi” il lavoro da ingegnere, al di qua

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del fiume?”. “Come?” Le dico.

Non l’ho aggiunta. E allora?

Silenzio. La osservo: occhi verdi, vivi. Avrà 25 anni. Ordino un’altra bottiglia, ma sì. Mi volto verso la mia ragazza. Una poltrona, bella. Rosso fuoco, di velluto. Bello l’arredamento in questo bar al di qua del fiume, caro diario. “Dov’ero? Sì sono venuto con Sara in giro. Comunque, dicevo: Ti invito sai? Agli eventi”. “Grazie”. Azzardo un “Appena termini il turno, che fai?”. “Nulla, ma stacco alle 3”. “Anche io” dico. “Cioè, vado via alle 3. Ma, forse, no. Domani lavoro. Forse vado via prima, sai ho un po’ di lavoro da fare, ma poco”. “Ma domani è domenica. Ok, dai, non preoccuparti, facciamo la prossima volta magari”. “Beh ok”. “Aggiungimi no? Magari ci vediamo, al di qua del fiume”. “Sì ti aggiungo, promesso.” Le dico.

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Perché azzardare se ho te, mio Precario Diario. Coi tuoi tasti neri, il tuo sfondo retro-illuminato. Scusa, apro un attimo il browser, programmo un post, massimo due, prometto. Poi vado a dormire. Non guadarmi così, vorrei scriverti di più, davvero. Vorrei scriverti un pezzo vero, Precario Diario. Un racconto, un libro. Ma domani lavoro. Un po’ di vino? E’ in offerta. Cioè, di birra. Domani è domenica. Il giorno del signore. Casa, letto, un po’ di lavoro. Solo un po’, promesso, mio Precario Diario. E la partita. Sì, la partita. È il giorno del signore, in fondo, domani.

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domenica colonna sonora: The prodigy - Firestarter

reietto che merito, perché non ho voluto studiare. Quando te la fai una famiglia? Quando la metti la testa a posto? Alla tua età già mantenevo te, tua mamma e tua sorella, ti rendi conto?

Precario Diario,

Vaffanculo.

ieri sera ho esagerato, porca miseria. Un altro sabato sera è andato, mi serve un’aspirina. Strofino gli occhi, che cazzo è ‘sta luce che entra dalla finestra? Ho mal di testa e ho voglia di bestemmiare. Per fortuna è domenica. Oggi a lavorare non ci vado. Beh, a pensarci bene non è che gli altri giorni ho tutta questa voglia di vedere don Giacomo e spaccarmi il culo per questi quattro spiccioli della cooperativa.

Rabbia è il solo sentimento che ho. Maria mi ha lasciato, dice che non sono in grado di gestire la mia vita e non posso garantirle un futuro stabile, una casa e una famiglia. Rido. In fondo non è la vita che desidero, figurati se devo lavorare una vita intera per sfamare donna e marmocchi.

Che ore sono? Mi giro e prendo il telefono. Porca miseria, mi ha chiamato Ciro venti volte, ma Cristo, non può dormire? È vero, ho capito che c’è la partita ma sono solo le nove. Ogni maledetta mattina mi sveglio alle sei, lavoro dodici ore per guadagnare meno di cinquanta euro. E mi devo sorbire pure le prediche di papà che mi rinfaccia tutti i giorni che è questa la vita da

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Antonio, che fa politica, dice che è inutile essere incazzati e andare a sfogare allo stadio. Dice che bisogna prendere coscienza, ribellarsi e usare la rabbia per cambiare le cose; la precarietà del lavoro non è una faccenda da poco, ha cambiato le vite delle persone e bisogna iniziare a prenderne consapevolezza. Già, belle parole. Stronzate da rivoluzionari della domenica, roba per falliti e sognatori. Io so solo che non posso permettermi neanche una casa. Il futuro è incerto e campo alla giornata. Oggi lavoro, domani chissà. Se non sarà nella

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cooperativa, magari farò il barista a nero. Tanto, ferie e malattia manco so’ pagate. St’estate c’è stata la fabbrica di pomodori e magari l’anno prossimo piglio la disoccupazione. Abito ancora con i miei, sì è vero, e quello che guadagno lo butto in alcool, qualche droga e le partite di pallone. Sono un fallito anch’io, forse. Ma almeno non sogno più.

A.C.A.B. Domani, se non mi faccio prendere, andrò di nuovo a lavorare.

Un caffè. Sigaretta. Vado in bagno, mi guardo allo specchio. Non ho una bella cera, ma non importa. Raso la testa. jeans a tubo, Adidas ai piedi. Felpa nera. A momenti passa Ciro. Dobbiamo arrivare davanti allo stadio prima, riunirci col resto del gruppo e andare a beccare gli stronzi che stanno arrivando, gli faremo il culo. Saranno in trecento. Esco di casa e salgo in auto: ci sono anche gli altri. Mezz’ora di macchina, parcheggio e si scende. Un paio di sessantasei al bar. Poi altre tre. Le guardie già sono schierate, l’adrenalina sale, l’odio di una settimana appena conclusa pure. Accendiamo i fumogeni e iniziamo a cantare, squadrati e uniti si avanza.

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lunedì colonna sonora: Radiohead - Creep

Precario Diario, ho ritrovato sulla mia agendina la lista delle carte da consegnare per Torno subito 2015. Era tutto spuntato con la penna blu. Il certificato di domicilio: c’è. L’analisi della carriera universitaria: c’è. La ricevuta di avvenuto bonifico, c’è. Era tutto in regola: stampe, scansioni e pdf; la pec è valida per un anno. Le 12:00 termine ultimo per l’invio. Alla cartoleria, prima di stampare, l’ultimo pignolissimo controllo. Corso di validità della Carta di Identità. Il documento, dove cazzo sta il documento, eccolo. E il documento è scaduto. Da un anno tra l’altro. Torno subito, proprio subito che forse neanche parto. Quella carta d’identità valida all’espatrio che mi avrebbe consentito di ritornare a casa solo tre giorni dopo. Smarrita, senza lascia passare e neppure identità mi aggiravo tra le strade ampie e le amicizie facili, tra le birre economiche e le sigarette di lusso. Non fumavo ma lavoravo. In

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un caffè prima, di quelli piccoli ed accoglienti dove il buon giorno è sonoro, il caffè alto e poco zuccherato ma le ciambelle sanno di cannella e se vuoi, anche di uva passa. Non era Natale e non c’erano i pinguini, era passato il Capodanno senza fuochi e piatti rotti, senza roccocò e mostaccioli. Un’ora e quindici, la distanza dal ponte al battistero. Smarrita, quella carta d’identità valida all’espatrio che recitava: residente in Via Indipendenza 20. Fiero nel cappello, ampio e tozzo nelle gambe, l’impiegato appone il timbro; il mio lasciapassare per superare il confine, i controlli aeroportuali ed imbarcare quella valigia fedele come l’amante del duce e le donne di don Chisciotte. Ombra dei miei viaggi e confidente delle mie dimore. Moody street e poi Sabelli, piazzale 12 e poi Corso Pagano, San felice e Sant’angelo. La stazione dei treni e le elezioni. Non abito qui e non sono cittadina del mondo. Non risiedo in Campania, e neppure nel Lazio. Domiciliata in zona centrale, con letto soppalcato, spettro del documento e delle elezioni. La mia carta d’identità è valida all’espatrio e mi

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consente anche di votare. L’ho smarrita in ogni sobborgo che ho dimorato, dai fumanti tetti indiani alle volte tinteggiate, l’ho consegnata ai marciapiedi alcolici ed ai bengalini celesti. L’ho smarrita anche per indicare la preferenza, alle mie elezioni e a quelle della svolta. L’ho rifatta ogni volta, ma è sempre la stessa. Residente: in Via Indipendenza, 20, in quel palazzo smantellato dal ridente municipio, sostituito dai giardini e dal campo di bocce, gli anziani necessitano di aggregazione e la società non può rifiutarli come fossero extracomunitari. Professione: Studente, di quella facoltà assorbita dal dipartimento, ingoiata dalla fondazione e disoccupata come le posizioni del Job’s act. La mia carta d’identità è valida all’espatrio, ma è scaduta da un anno e ho deciso di non rinnovarla. Il passaporto, meglio quello. Così, invece di raggiungere l’Europa, rannicchiata sui silenzi dei mari e le onde crespe, me ne vado in Messico. Magari trovo un lavoro in una bottega ed una casa in una altura.

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•••• titoli di coda

lo struscio colonna sonora: Antonello Venditti - Compagno di Scuola

Quando ci rivedemmo era allo struscio. Cos’è lo struscio? È quando una generazione che supera i diciotto ma non arriva ai quaranta si riversa per i vicoli del centro storico cittadino. L’affollamento giunge al punto di tirare dietro la pancia e camminare in rigoroso profilo. Questa scomoda passeggiata si ripete puntuale ogni anno il ventiquattro dicembre per brindare al bambino Gesù o, con maggiore certezza e sincerità, per salutarsi e bere con una buona scusa. Quando l’alcol sale (a stomaco vuoto o con un calzone che si inghiumma perché di qualche settimana prima), capita lungo la transumanza umana di incontrare tra le migliaia di facce qualcuna dall’apparenza familiare che non vedi da anni. Quando ci rivedemmo (non era poi così strano) era lecito scrutarsi per un secondo prima di riconoscere quel volto un po’ più scavato, un po’

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più affaticato, ma allo stesso tempo abbastanza alcolico per sorridere stirando le rughe.

certezze che mancano.

Era il mio compagno di scuola, o forse il tuo, poco importa. Avrei voluto chiedergli “Sono cinque, sei, sette anni che non ci vediamo. Ricordo che studiavi ingegneria e adesso che fai?” Ma pare brutto chiedere (da queste parti si dice così), e non solo. Potrebbe vivere una condizione delicata e porterei imbarazzo in un giorno di festa.

Probabilmente anche lui vive fuori e anche lui spende lo stipendio in affitto e si ammazza al discount per risparmiare un poco e mettere qualche spicciolo da parte. Sarà, con maggiore certezza, che stiamo vivendo un momento in cui non riusciamo a vedere la terra promessa e ci accontentiamo di navigare a vista, perché altro non possiamo al momento, ma poi andrà meglio.

Avrei voluto parlare in modo diretto delle frustrazioni che provo anche se il rapporto dopo tanti anni è inesplorato e non ho idea chi sia effettivamente la persona cui stringo la mano e abbraccio fraternamente. Ho pensato che nonostante non ci conoscessimo praticamente più, qualcosa ci accomunava. Sarà che abbiamo svolto gli studi liceali insieme? Ma no, non vuol dire poi molto. Sarà che entrambi ci siamo iscritti all’università? Sarà che entrambi abbiamo una laurea qualificata e probabilmente anche una seconda? Forse. Ma pistola alla tempia, credo che in comune abbiamo il macigno degli anni che passano e le

Vorrei dirgli: “Ti capisco, anche io non me la passo bene, ma che vuoi farci, sono tempi duri”, ma mi sentirei distante e artificiale. Vorrei chiedergli “Anche il tuo capo non ti paga da due mesi? E le bollette hai visto? Però, meglio che vivere ancora con mammà. Come dici? Hai deciso di restare? In parte ti invidio, sai? Ma tu che contratto hai? Quando ti scade? Quanto vorrei dei buoni pasto e non fare due lavori. Ah anche a te il lavoro che porta più soldi è scarsamente qualificato mentre l’altro lo fai come fosse un hobby?” Che bello rivederci compagno di scuola. Però, poi ci rifletto un attimo e mi pervade un senso di tristezza e smarrimento che vorrei per

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primo evitare. A questo punto la butto in caciara “Questi politici sempre a rubare, e noi?”, ma sarebbe un modo di relazionarsi sciatto e qualunquista. Vorrei dirgli “Dove vivi? dove sei finito?”, in fondo qui siamo al Sud e dopo un po’ di anni in tanti prendono il volo. Londra, Berlino, Parigi, Milano e altre mete più complesse da buttarsi su google maps per orientarsi. È una domanda che ci può stare, ma intanto qualcuno spinge tra la folla e stappa uno spumante che diventa subito uno shampoo appiccicaticcio e infame. E mentre ti perdo di vista perché la fiumana beota dopo avermi lavato i capelli vuole anche trasformarmi in una sardina, penso a sopravvivere invece di ricercare le parole giuste. Anzi, siccome pare brutto non dirsi nulla, sai che faccio, caro compagno di scuola? Sorrido imbarazzato e ti chiedo “Come stai?” tu mi rispondi “Tutto bene e tu?” e ci rivediamo tra un anno con qualche ruga e un altro capello bianco, forse tu sarai calvo (io di certo no) e ci diremo dopo tanti ragionamenti “Come stai?” e tu mi risponderai “Tutto bene e tu?” “Bene, bene”.

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