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Che fare se non viene restituita la caparra?

30 Marzo 2017 | Autore:
Che fare se non viene restituita la caparra?

La mancata restituzione dell’acconto versato al venditore non costituisce reato di appropriazione indebita, ma solo un illecito civile: niente querela, necessaria invece la causa ordinaria.

Se, a seguito del naufragio delle trattative per un contratto, il venditore non ci restituisce la caparra che gli avevamo consegnato, possiamo denunciarlo per appropriazione indebita? Sembrerebbe di sì, trattandosi di una somma che ci appartiene e che era stata a suo tempo “prestata” in attesa della firma definitiva del contratto. Eppure le cose non stanno così e a dirlo è una recente sentenza della Cassazione che chiarisce che fare se non viene restituita la caparra. Secondo la Suprema Corte, la mancata restituzione dell’acconto versato in vista di un affare non integra il reato di appropriazione indebita in quanto, nel momento in cui il denaro passa dalle mani di un soggetto all’altro, si trasferisce anche la proprietà dello stesso. Ma procediamo con ordine.

Cos’è la caparra?

Quel che noi, comunemente, chiamiamo acconto, per la legge si chiama caparra. Immaginiamo di prenotare una vacanza di una settimana presso l’agenzia viaggi; di chiedere all’officina di ordinare, per conto nostro, un pezzo di ricambio originale da montare poi sulla nostra auto; di firmare un compromesso per l’acquisto di una casa. In tutti questi casi, ci viene chiesto di versare un acconto, che serve a chi lo incassa a cautelarsi nel caso in cui l’affare non dovesse essere più concluso per una ragione o per un’altra. Insomma, si tratta di un modo per farsi risarcire dalle perdite subite per i servizi già resi, per i costi affrontati o per l’impegno assunto in precedenza.

La caparra è dunque una sorta di acconto sul prezzo definitivo che dovremo versare, ma anche una sorta di risarcimento che verrà incassato qualora l’affare non dovesse andare in porto. In realtà esistono due tipi di caparra:

  • caparra confirmatoria: in questo caso se l’acquirente ci ripensa e dà disdetta, non solo perde la caparra, ma potrebbe essere chiamato anche a risarcire al venditore il danno del mancato guadagno;
  • caparra penitenziale: in tale ipotesi, invece, qualora sopraggiunga il ripensamento dell’acquirente, questo perde solo la caparra che è già comprensiva del risarcimento. Insomma, non gli possono essere richieste altre somme, neanche a titolo di risarcimento.

Attenzione: la somma versata alla firma del contratto è qualificabile come caparra solo se lo prevede espressamente il contratto, che dovrà chiarire anche di quale tipo di caparra si tratta (confirmatoria o penitenziale). Se, invece, non viene menzionata la caparra, l’acconto versato non è che un mero anticipo di denaro, che quindi – in caso di disdetta – andrà sempre restituito al cliente, a meno che la controparte non dimostri di aver subito un danno o che l’impegno contrattuale era irrevocabile.

Che fare in caso di mancata restituzione della caparra?

Veniamo ora al problema di cui si è occupata la Cassazione: come difendersi se non viene restituita la caparra? E la Corte ammonisce: inutile presentare una querela per appropriazione indebita, perché chi non restituisce la caparra ricevuta non commette reato.

La spiegazione è piuttosto semplice. Cercheremo di illustrarla con parole semplici.

Il reato di appropriazione indebita [2] presuppone la non restituzione di un bene di proprietà altrui.

Invece, quando viene consegnata una somma di denaro, trattandosi di cosa mobile “fungibile” (ossia facilmente sostituibile con cose dello stesso tipo e valore), la proprietà si trasferisce al venditore, anche se questi assume l’obbligo di restituire il denaro in caso di disdetta o naufragio delle trattative.

In particolare il Codice penale, nel disciplinare il reato di appropriazione indebita, prevede e punisce chi «per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo». La pena – che necessita della previa querela della persona offesa – è quella della reclusione fino a tre anni e con la multa fino a 1.032 euro.

Elemento distintivo della fattispecie è quindi l’appropriazione della cosa altrui e il rifiuto della restituzione al legittimo proprietario.

Nel caso della caparra, tuttavia, la cessione del denaro comporta che detto bene, essendo infungibile, nel momento in cui viene consegnato al venditore diviene immediatamente di proprietà di quest’ultimo.

Invece, può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita solo «colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impego vincolato, se l’appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta». Cosa che non ricorre in caso di mancata restituzione della caparra per mancanza del presupposto dell’appropriazione della cosa altrui.

Se non è possibile sporgere querela, che fare se non viene restituita la caparra? Secondo la Corte, l’unico rimedio possibile è intentare una causa civile per inadempimento contrattuale. L’obbligo infatti di restituire la caparra deriva dagli stessi accordi firmati dalle parti, accordi di natura contrattuale, e non ha invece rilevanza da un punto di vista penale.

Non integra il delitto di appropriazione indebita, ma un mero inadempimento di natura civilistica la condotta del promittente venditore che, a seguito della risoluzione del contratto, non restituisca al promissario acquirente l’acconto sul bene promesso in vendita.

note

[1] Cass. sent. n. 15815/17 del 29.03.2017.

[2] Art. 646 cod. pen.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 8 – 29 marzo 2017, n. 15815
Presidente Diotallevi – Relatore Rago

Fatto e diritto

1. Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Ancona ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza in epigrafe con la quale la Corte territoriale aveva confermato l’assoluzione, perché il fatto non sussiste, di V.G. imputato del reato di cui all’art. 646 e 61 n. 7 cod. pen. per essersi appropriato – non avendola restituita – della somma di Euro 52.500,00 che M.R. gli aveva versato in acconto del prezzo di un preliminare che, successivamente, era stato risolto.
Ad avviso del ricorrente, infatti, le somme consegnate in acconto prezzo, non possono considerarsi patrimonio originario dell’accipiens, in quanto, essendo consegnate con chiara finalità di destinazione, sono suscettibili di appropriazione.
Con memoria depositata il 16/02/2017, la parte civile M.R. ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
2. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.
Pacifico il fatto, la questione di diritto che è sottoposta a questa Corte consiste nello stabilire se la mancata restituzione di una somma ricevuta in acconto prezzo di un preliminare successivamente risolto, costituisca o meno appropriazione indebita.
L’essenza ed il fondamento del reato di appropriazione indebita consiste nella lesione del diritto di proprietà o di altro diritto reale mediante l’abuso di cosa o denaro altrui: infatti, come hanno precisato le SSUU con la sentenza n 1327/2005 (Li Calzi), nell’appropriazione indebita “il denaro o la cosa mobile di cui l’agente si appropria, non fanno mai parte ab origine del “patrimonio” del possessore, ma si tratta sempre di denaro o di cose di “proprietà” diretta od indiretta di altri, che pur confluendo per una determinata ragione nel “patrimonio” dell’agente, non divengono, proprio per il vincolo di destinazione che le caratterizza, di sua proprietà, in deroga – come espressamente previsto dall’art. 646 c.p. ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà delle cose fungibili (cfr. Cass., sez. 2^, 17 giugno 1977, n. 2445, Pomar, RV. 137092). Di conseguenza, ove l’agente dia alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui la possiede, ovvero a richiesta o alla scadenza non restituisca la cosa o il denaro, commette il reato di appropriazione indebita, tutti casi, tradizionalmente individuati dalla giurisprudenza di legittimità, in cui la somma entra ab extrinseco a far parte del patrimonio del possessore e con questo non si confonde proprio perché connotata da una vincolo specifico di destinazione”.
Questo principio è stato, poi, espressamente e nuovamente confermato dalle SSUU che con la sentenza n. 37954/2011 Rv. 250974 (§ 12.4 ss), in relazione all’appropriazione di somme di denaro ha precisato e chiarito che “il legislatore non ha inteso utilizzare la nozione di altruità nel senso, strettamente civilistico, di proprietà distinguibile dalla disponibilità. Per il diritto civile la proprietà delle cose fungibili si trasferisce, per specificazione e separazione, con il trasferimento del possesso, e il denaro è perciò destinato a confondersi con il patrimonio di chi lo possiede, né in relazione ad esso sono configurabili diritti reali di terzi. Anche nel caso che taluno abbia ricevuto da altri una somma, per custodirla o per impiegarla in un certo modo, incombe sull’accipiente soltanto l’obbligo di rendere o di impiegare l’equivalente, a scadenza, secondo pattuizione, non il divieto di farne, nel frattempo, uso. Il riferimento, nell’art. 646 cod. pen., al possessore di denaro altrui, è invece indice certo che per il diritto penale la regola della indistinguibilità tra disponibilità e proprietà di cose fungibili non può valere indiscriminatamente (….). Nonostante l’ampliamento della nozione di altruità, nulla consente di ricondurre ad essa qualsivoglia diritto di credito, fosse anche liquido ed esigibile. Impedisce, al contrario, di considerare costitutiva di appropriazione indebita ogni condotta di inadempimento di un’obbligazione che veda come prestazione o controprestazione, seppure vincolata, la dazione a un terzo di una somma di denaro, se non altro il fatto che l’inadempimento di una mera obbligazione è già sanzionata penalmente e più lievemente dall’art. 641 cod. pen., ma esclusivamente nell’ipotesi in cui essa sia stata assunta, ab origine, con il proposito di eluderla e dissimulando lo stato d’insolvenza. Efficace indicazione per una regolazione di confini proviene da Sez. 2, n. 7770 del 09/02/2010, Di Bernardo (non massimata), laddove osserva che sarebbe irragionevole “assegnare ad una stessa condotta materiale di interversione del possesso una portata differenziata a seconda della natura del bene – fungibile o infungibile – quando è lo stesso testo normativo a parificare sotto questo profilo il precetto, facendo espresso riferimento, quale oggetto della condotta appropriativa, al denaro o ad altra cosa mobile altrui”. È la stessa formulazione normativa, in altre parole, che impone all’interprete di considerare il denaro, al quale l’agente ha dato una destinazione diversa da quella dovuta, come se fosse una qualsiasi altra cosa mobile infungibile. Se denaro o cosa facevano parte del patrimonio dell’inadempiente quando ha assunto l’obbligo di impiegarli o destinarli a favore di un terzo, egli sarà senz’altro responsabile con l’intero suo patrimonio per l’inadempimento, ma non potrà essere sottoposto ad azione di rivendicazione né potrà imputarglisi alcuna interversione del possesso o condotta appropriativa. Se l’inadempiente ha invece ricevuto il denaro o la cosa per impiegarli o destinarli nell’interesse del terzo, la sua condotta di apprensione (appropriazione) e sottrazione (espropriazione) del bene alla destinazione in vista della quale ne aveva acquisito la disponibilità, costituirà, che abbia o non abbia ad oggetto un bene infungibile suscettibile di rivendicazione, appropriazione indebita rilevante ai sensi dell’art. 646 cod. pen. (….) Più in generale, il principio è che può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impiego vincolato, se l’appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta (…).
Non potrà invece ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia ad obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo”.
Ed è proprio in applicazione di tali principii che, ad es., questa Corte ha ritenuto la configurabilità del delitto di appropriazione indebita in una fattispecie in cui al denaro consegnato perché fossero estinte delle ipoteche (Cass. 47533/2015 riv 266370) o pagati i diritti doganali (Cass. 25281/2016 Rv. 267013), il possessore dette una destinazione diversa.
La questione, quindi, alla fin fine, si risolve nello stabilire se l’acconto prezzo relativo ad un preliminare che la parte promissaria acquirente versa al promittente venditore, abbia un vincolo di destinazione ovvero entri a far parte del patrimonio dell’accipiens sicché, stante la fungibilità del denaro, è ipotizzabile solo un obbligo di restituzione di natura civilistica.
Sul punto, ritiene questa Corte – pur prendendo atto della contraria decisione di Cass. 48136/2013 rv. 257483 – di dover dare continuità a quella giurisprudenza secondo la quale “la mancata restituzione della caparra non configura l’ipotesi criminosa di cui all’art. 646 cod. pen. difettando il presupposto essenziale dell’impossessamento di cosa altrui, poiché la somma (o la cosa fungibile) data a tale titolo passa nel patrimonio dell’accipiens, il quale ne diventa proprietario ed è tenuto in caso di adempimento ad imputarla alla prestazione dovutagli e in caso di inadempimento alla restituzione (trattandosi di cose fungibili) di danaro o cose dello stesso genere in quantità doppia”: Cass. 5732/1982 riv 154152; Cass. 24669/2007 ha ribadito che ove la somma “non sia stata corrisposta al percettore con uno specifico mandato atto a tracciare la destinazione finale della somma stessa – il che determinerebbe in capo all’accipiens la posizione di mero detentore del denaro che resterebbe fino all’esecuzione del mandato di proprietà del dante causa – ma sia stata invece erogata a titolo di prezzo, parziale o totale di una normale compravendita, neppure l’ipotesi della appropriazione indebita può essere configurata. Ciò, per l’assorbante rilievo che attraverso la dazione del prezzo il bene è passato definitivamente in proprietà dell’accipiens, il quale, a sua volta, non potrà che essere tenuto all’adempimento dell’obbligazione contratta: vale a dire la consegna del bene compravenduto”.
Ed infatti, benché sotto il profilo civilistico l’acconto sia differente dalla caparra, ai fini penalistici non è possibile effettuare alcuna distinzione proprio perché sia l’acconto che la caparra non hanno alcun impiego vincolato: di conseguenza, entrando la somma di denaro a far parte del patrimonio dell’accipiens, a carico di costui, nel caso in cui il contratto venga meno fra le parti con conseguenti effetti restitutori, matura solo un obbligo di restituzione che, ove non adempiuto, integra solo gli estremi di un inadempimento di natura civilistica.
Il ricorso, pertanto, va rigettato alla stregua del seguente principio di diritto: “Non integra il delitto di appropriazione indebita, ma un mero inadempimento di natura civilistica, la condotta del promittente venditore che, a seguito della risoluzione del contratto, non restituisca al promissario acquirente l’acconto sul prezzo del bene promesso in vendita”.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

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