giovedì 24 giugno 2010

Prevedere l’imprevedibile. Intervista a Vincenzo Pepe sulla questione nucleare in Italia

Prevedere l'imprevedibile. Intervista a Vincenzo Pepe sulla 
questione nucleare in ItaliaIl Presidente della Commissione Energia del movimento FareAmbiente, Orazio Mainieri, ha scritto di recente sul quotidiano «Buongiorno Campania» (edizione di Caserta, 9 giugno 2010, p. 5) che «la nostra fonte energetica di riferimento deve essere: sicura, pulita, economica, massiva e poco invasiva [...] principi che si adattano perfettamente all’energia nucleare» e che «questo è il nostro scopo: tutelare l’ambiente anche attraverso una corretta informazione. [...] La verità è che, in quasi 60 anni di funzionamento, i nostri reattori commerciali moderati ad acqua di seconda generazione non hanno mai provocato incidenti con vittime». Al riguardo, abbiamo intervistato il Presidente del movimento FareAmbiente, prof. Vincenzo Pepe, che si avvale della consulenza scientifica della C.E.

Prof. Pepe, in Francia (il Paese europeo con la maggior esperienza in fatto di energia nucleare) nel solo 2008 si sono avuti 3 incidenti con dispersione di grandi quantità di materiali radioattivi nell’acqua, nell’aria, nel terreno (2 a Tricastin e 1 a Romans-sur-Isere). In che senso sostenete che il nucleare è una fonte di energia "sicura"?
Si parla sui giornali, a sproposito, di incidenti nucleari. Ora allo scopo di misurare la gravità di un incidente nucleare è stata stabilita una scala internazionale, la scala INES (International Nuclear Event Scale) che classifica tutti gli eventi nucleari. Gli incidenti nucleari corrispondono ai livelli più alti della scala INES, dal 4 al 7. I livelli più bassi, da 0 a 3, sono riservati ai guasti che presentano un impatto lieve all’esterno dell’impianto e con esposizione radiologica della popolazione circostante entro i limiti prescritti. Per questo motivo spesso i giornali amano “far notizia” con titoli roboanti anche per semplici guasti: livello 0 e 1 della scala Ines, come quelli francesi del 2008. È come se si parlasse di grave terremoto anche quando siamo al 1 e 2 grado della scala Mercalli: scossa lieve e leggera. Inoltre i media spaventano la gente con notizie generiche, ad effetto, su fughe radioattive e possibili contaminazioni che non hanno nessun significato sanitario. Infatti la radioattività è sulla terra da miliardi di anni e sta anche nel nostro corpo perciò un ambiente radioattivo è la normalità. I rischi sanitari sono collegati alla dose e di questa i giornali non parlano mai perché le dosi derivanti dai guasti di solito sono bassissime. Parlarne è ridicolo. Chiariamo questo aspetto: per la misura delle dosi di radiazioni assorbite dall’uomo, o più precisamente per una misura degli effetti biologici dovuti alla dose di radiazioni assorbita, è stato introdotto il concetto di equivalente di dose, che tiene conto della dannosità, più o meno grande, a parità di dose, dei vari tipi di radiazioni ionizzanti. In questo caso, l’unità di misura é il sievert (simbolo: Sv). Il limite massimo di dose stabilito dalla legge italiana per le persone del pubblico è 1 millisievert (1mSv)/anno al di sopra della dose naturale di radiazioni. La dose annualmente assorbita da ogni individuo della popolazione per effetto della radioattività naturale è mediamente di 2,4 mSv/anno. Alla radioattività naturale contribuiscono una componente terrestre e una componente extraterrestre. Per avere qualche idea in proposito diciamo che per una radiografia al torace si assorbono 0,14 mSv, mentre per una mammografia si arriva ad 1 mSv. Perciò in caso di “fughe radioattive” da qualche sito, per inquadrare il problema nei suoi giusti termini conviene che l’informatore (cioè il giornalista) comunichi subito, se lo sa, qual è la dose assorbita dal “gruppo critico” (che è il gruppo più sensibile) che sta nella zona. Questo sarebbe un modo di fare corretta informazione verso un pubblico che va rispettato fornendo notizie corrette. La fiducia della gente si conquista anche in questo modo. Altrimenti c’è solo confusione come si evince da questa domanda.
Dall’ultimo rapporto di "Medici per l’Ambiente-ISDE Italia", emerge che «nel normale funzionamento di qualsiasi centrale nucleare (anche in assenza di incidenti o fughe radioattive) vengono inevitabilmente e obbligatoriamente prodotte e immesse nell’ambiente esterno una serie di sostanze radioattive, che entrano anche nella catena alimentare dell’uomo». In che senso sostenete che il nucleare è una forma di energia "pulita"?
Le pochissime sostanze radioattive che vengono immesse nell’ambiente durante il funzionamento normale della centrale a uranio rispettano una “formula di scarico” che porta ad avere sull’ambiente circostante effetti sanitari praticamente nulli. L’energia nucleare presenta sensibili vantaggi sul piano ambientale. Una centrale termoelettrica a combustibili fossili di 1.000 MWe movimenta ogni anno da 1 a 2 milioni di tonnellate di combustibile (nel caso del carbone si tratta di 1.000 carri ferroviari al giorno) e produce ogni anno (a seconda del combustibile adottato):
– da 4 a 7 milioni di tonnellate di CO2;
– da 600 a 2.000 tonnellate di CO;
– da 4.500 a 120.000 tonnellate di ossidi di zolfo;
– da 4.000 a 27.000 tonnellate di ossidi di azoto;
– da 1.500 a 5.000 tonnellate di particolati in atmosfera;
– da 25.000 a 100.000 tonnellate di ceneri;
– da 1 a 400 tonnellate di metalli pesanti nelle ceneri;
– da 1 a 50 GBq di radioattività (radionuclidi a lunga vita) nelle ceneri.
Ebbene una centrale nucleare a uranio della stessa potenza (1.000 MW elettrici) non ha questi scarichi nell’ambiente. In questo senso sosteniamo che il nucleare è una forma di energia pulita.
Le statistiche mostrano una precisa correlazione tra la percentuale di leucemie e tumori e la vicinanza agli impianti nucleari. In che senso "negli ultimi 60 anni di produzione nucleare non ci sono state vittime"? I morti (ma anche solo gli ammalati) per cancro causato dal nucleare, non sono forse vittime appunto del nucleare?
Questa affermazione è una bufala. Infatti nessun Ente Sanitario Nazionale o Internazionale ha mai provato con studi queste affermazioni che sono sostanzialmente gratuite. Dirò di più; queste affermazioni non risultano dimostrate neanche per una centrale incidentata come quella di Chernobyl, figuriamoci per una centrale a normale funzionamento. Sono favole. Mi permetto al riguardo di citare uno studio, penso non conosciuto dai più. Si tratta di un interessante lavoro di monitoraggio delle regioni contaminate dall’incidente di Chernobyl che è stato fatto dalla Agenzia Regionale Per l’Ambiente (A.R.P.A.) dell’Emilia Romagna, Sezione provinciale di Piacenza, in collaborazione con Legambiente (si trova sul sito: www.seeninside.net/energia/fen06.html). In questo studio è stato necessario dividere in tre gruppi le persone:
- 1^ gruppo, quelli che intervennero nella fase dell’emergenza del primo giorno.
- 2^ gruppo, quelli che lavorarono successivamente alla decontaminazione, alla realizzazione del sarcofago, nell’area di 30 km intorno alla centrale detta "Zona Interdetta", e gli operatori della centrale che restò in funzione (per gli altri tre reattori da 1000 MWe non incidentati).
- Popolazione civile, tutte le persone residenti nelle "Aree contaminate", e quindi nelle aree dove la contaminazione è superiore a 185 kBq/m² (= 185.000 Bq/m²).
Dallo studio si evince che le poche decine di vittime si sono avute nel primo gruppo e altre decine nella zona interdetta per tumore alla tiroide, poi più nulla. Si parla di un totale intorno a 65 vittime. Nello studio per la popolazione civile si dice: Si è molto parlato degli effetti genetici a lungo termine causati dal disastro di Chernobyl. In una tabella (Table 68) sono riportati i valori relativi a tre gruppi di popolazione in tre regioni diverse per tredici anni di controlli (1980-1993) e quindi da sei anni prima del disastro a sei anni dopo. In alcuni casi gli effetti negativi sembrano essere addirittura diminuiti, in altri aumentati. Ad esempio le anomalie congenite sono aumentate nella regione di Bryansk, mentre sono diminuite nelle regioni di Tula e Ryzan”. E ancora:La nuova indagine eseguita nel 2004 conferma la presenza di contaminazione radioattiva da 137Cs derivante dall’incidente di Chernobyl in alcune province della Bielorussia meridionale. I risultati delle misure eseguite presso il Centro ’Vjazze’ e successivamente in laboratorio sui campioni alimentari o ambientali indicano livelli di contaminazione confrontabili con quelli rilevati nel 2003 al Centro Nadezhda, paragonabili ai valori riscontrati nella regione Emilia-Romagna in analoghe matrici. E conclude: Da questo documento si evince che il livello di contaminazione radioattiva delle aree (esclusa la ’zona interdetta’) è ormai rientato nella normalità, cioè sui valori naturali, sia per la radioattività in aria, sia per quella al suolo sia per gli alimenti. Tant’è vero che i valori sono gli stessi riscontrati in analoghe analisi in Emilia Romagna. Conclude il lavoro dicendo: Quindi dovrebbero essere attendibili (i dati riportati, n.p.) anche per gli ecologisti più sospettosi, a meno di ammettere che anche l’ARPA - Emilia Romagna e Legambiente facciano parte del complotto globale che vuole tacere la "Verità" sul disastro di Chernobyl". Fareambiente sottoscrive e riassume: poche decine di morti a Chernobyl, nessuno vicino alle altre centrali nel Mondo. Quindi nei reattori occidentali moderati ad acqua non si sono avuti morti per incidenti nucleari né dentro né fuori l’impianto. Per il normale funzionamento degli stessi il problema NON ESISTE.
L’attuale potenza complessiva degli impianti di produzione di energia elettrica in Italia è di 100 GW, a fronte di una richiesta massima nel 2008 di 55 GW. Poiché è impossibile garantire che incidenti come quello di Chernobyl o di Three Miles Island non si ripeteranno mai più, la domanda è: abbiamo veramente bisogno dell’energia nucleare?
Si capisce che chi pone questo problema della potenza degli impianti, non li conosce o meglio non sa di cosa sta parlando. I 100 GW elettrici sono la somma di tutti gli impianti termoelettrici presenti al momento sulla carta. È come parlare di 100 automobili da usare mettendo dentro anche le Balilla del 1932. In breve molti sono impianti obsoleti a basso rendimento ed in fase di dismissione. Infatti nei 55 GWe del 2008 sono compresi i 7 GW elettrici che provengono dall’estero, dalle nucleari francesi. Come mai? Significa che nei 100 GW elettrici c’è ben poco da riutilizzare per la rete italiana. Poi citare Chernobyl e TMI (dove non è morto nessuno) per negare la fonte nucleare è puerile visto il tempo passato e l’estrema sicurezza dei reattori moderati ad acqua di seconda generazione che non hanno mai fatto vittime. Quelli di terza sono 100 volte più sicuri. Prevedono anche l’imprevedibile. Comunque non possiamo poggiare il nostro futuro energetico solo sui combustibili fossili.
Il problema delle scorie? È forse un problema trascurabile? O rinviabile all’infinito? Possiamo veramente progettare di produrre ulteriori scorie, ben sapendo che ad oggi non siamo in grado di confinare quelle prodotte "negli ultimi 60 anni"? È veramente possibile, come voi sostenete, "tutelare l’ambiente" senza sapere come fare a confinare le scorie in sicurezza?
È imperante un linguaggio giornalistico mistificatorio. Definizione di scoria: materia scartata durante una lavorazione industriale. Ebbene un reattore ad acqua leggera da 1.000 MWe necessita ogni anno di circa 30 tonnellate di uranio arricchito nella componente U235 (3-5%). Dopo l’utilizzo viene inviato all’impianto chimico di riprocessamento dando 250-275 kg di plutonio e 1225 kg di prodotti di fissione di cui 25 kg sono attinidi minori (quelli che necessitano di un isolamento millenario). Ora il plutonio può essere riutilizzato per costruire nuovi elementi di combustibile (MOX). La maggior parte dei frammenti di fissione, 1200 kg, può essere riutilizzata in molti campi: dalla medicina all’agricoltura e all’industria. Restano alla fine 28.500 kg di U238 con un residuo di U235 che risulta essere quindi solo uranio da miniera. A ben guardare le “scorie” sono ben poche. I radionuclidi artificiali possono essere prodotti, quindi, da reattori nucleari, acceleratori della particella (ciclotroni) o dai generatori di radionuclidi. L’uso delle radiazioni ha permesso lo studio e lo sviluppo di nuove tecniche antiparassitarie e di fertilizzazione che sono oggi estesamente impiegate in agricoltura e nella prevenzione sanitaria. Le radiazioni sono estesamente applicate anche nell’industria agroalimentare sottoponendo a irraggiamento le derrate per la distruzione di insetti, muffe e batteri responsabili del loro deperimento o per finalità antigerminative. In campo medico, i radioisotopi sono usati per la diagnosi, il trattamento dei tumori e la ricerca. All’utilizzo delle radiazioni nella diagnosi e nella cura delle malattie sono oggi dedicate alcune specialità della medicina: la radiodiagnostica, la medicina nucleare, la radioterapia. Gli isotopi maggiormente usati sono: Iridio 192, Iodio 125, Stronzio 89, Cesio 137, Palladio 103, Oro 198 (ma non erano scorie?). Problema depositi. Nel Mondo, per esempio, abbiamo già un’ottantina di depositi centralizzati per i rifiuti radioattivi (RR) di prima e seconda categoria (quelli ad isolamento secolare), rifiuti detti genericamente scorie. Ebbene, negando la realtà-verità, gruppi di buontemponi sostengono che non esistono posti dove depositare i RR. Invece il problema di questi rifiuti è tecnicamente risolto con l’infustamento dei medesimi in contenitori di acciaio sicuri e collocati nei depositi centralizzati, presenti ovunque nel Mondo, tranne che in Italia. Per quelli di terza categoria negli USA abbiamo già operativo, nel New Mexico, WIPP (Waste Isolation Pilot Plant) e altri siti in fase di studio in molti altri Paesi. Data la scarsa quantità oggi presente nell’UE di RR di terza categoria e il lungo tempo di isolamento necessario; per questa categoria si procede con studi particolarmente severi. Ciò però non significa che i depositi non esistano. Ci sono e verranno predisposti per accogliere anche questa tipologia di RR. Nel mondo industrializzato, quindi, l’Italia è l’unico Paese senza un deposito centralizzato per i rifiuti radioattivi. Una strana anomalia. Per questi rifiuti occorre evidenziare che il problema viene puerilmente ingigantito ad arte. In realtà è secondario e marginale per tanti motivi. Il primo di questi motivi è che si tratta di quantità irrisorie. Quindi questi depositi occupano poco spazio, diciamo l’equivalente di un paio di campi di calcio per 20 anni di funzionamento di 50 reattori. La maggioranza dei rifiuti radioattivi (RR) italiani, purtroppo, si trovano in 20 siti (120 depositi temporanei), distribuiti sul territorio di 11 regioni. In sintesi, abbiamo circa 60mila metri cubi (90mila considerando anche quelli di altra provenienza) di rifiuti radioattivi (quantità irrisoria) per i quali l’Italia dovrà trovare una sistemazione, con il 5% di terza categoria, più o meno il volume di un palazzo in totale. Per lo più, in maggioranza, si tratta di rifiuti che decadono in tempi massimi di alcune centinaia di anni. Ci sono leggi, in Italia, che trattano l’argomento. La perdurante mancanza di un deposito nazionale centralizzato definitivo per i rifiuti radioattivi determina una situazione di pericolo latente. Quindi il pericolo proviene solo dall’impossibilità di avere una gestione centralizzata. Occorre ricordare che la task-force Enea individuò, a suo tempo, ben 214 siti che riguardavano tutte le regioni italiane. Comunque l’articolo 26 del decreto attuativo (della legge 23 luglio 2009, n. 99 in materia nucleare) già permette di preparare: “l’autorizzazione unica per la costruzione e l’esercizio del Parco Tecnologico” che comprende il Deposito Nazionale definitivo, incarico affidato con l’art. 25 alla Sogin S.p.A. Ai governanti e a chi occupa posti di responsabilità dovremmo ricordare che non si può rinviare all’infinito. I problemi non si risolvono da soli. Fareambiente è un movimento ecologista che opera nel concreto, che collabora per risolvere i problemi. Non fa critiche inutili. Concentrare i RR in un unico sito, adeguatamente approntato, significa spostare inquinanti diffusi su tutto il territorio nazionale in unico deposito multi barriera a impatto esterno nullo. La tutela ambientale si fa con i fatti. È arrivato il momento di concretizzare perché di siti per i RR di I e II categoria in Italia ne abbiamo pure troppi da scegliere, ma la politica deve decidere. Quindi noi di Fareambiente sappiamo benissimo cosa fare per i RR: assumersi le responsabilità.
(«AgoraVox», 24 giugno 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano