Giuseppe Genna – Italia De Profundis

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Giuseppe Genna, in un libro più autobiografico del consueto, scandaglia se stesso per indagare l’Italia. E scrive un “de profundis” scavato nelle proprie carni, quelle di un autore prodotto dall’Italia e proprio per questo emblema dell’Italia tutta. Spietatamente si mette a nudo in un romanzo programmaticamente antinarrativo, nel quale lo scrittore e la nazione si corteggiano, si evitano, finiscono per coincidere. Particolarmente nella seconda e ultima parte, in cui l’esperienza di un soggiorno all’interno di un villaggio turistico diventa emblema di un Paese che si è fatto villaggio-vacanze: un villaggio che “è esploso, la nazione è esplosa, il collante sociale si è disciolto come tempera nel mare”, metafora dell’immanente tragedia italiana, quella di un dramma che avviene al di fuori della sfera della nostra coscienza e che quindi ignoriamo, nonostante sia già in atto, anzi, già compiuto. Che è quello della caduta della parola, della caduta dell’immagine, dell’impossibilità di dare inizio a qualcosa che non sia già stato omologato, di dialogare al di fuori di una vita-spettacolo intrisa di eterno presente e incapace non solo di guardare se stessa, ma anche di concepire la morte, e quindi il senso, se non come qualcosa di lontano da sé. Un romanzo impossibile da raccontare, scritto con uno stile debordante, a volte ostico, superbo e sprezzante, da un autore che si autodefinisce “stronzo esplicito” e che trincia giudizi su tutto e su tutti, a partire da se stesso, in un’autocritica compiaciuta ma non assolutoria in cui si nega uno snobismo invece evidente.

Al termine di un’estenuante maratona lunga 345 pagine, il lettore, condotto abilmente verso lo spiazzamento, ritrova se stesso, la miseria della propria italianità, la barbarie che condivide tanto con chi sente vicino quanto con chi avverte distante da sé; e, nello sforzo di non identificarsi, è costretto ad arrendersi all’identificazione non con il narratore-protagonista Giuseppe Genna, ma con la tragedia di essere italiani. E così l’intellettuale che disprezza gli intellettuali demistifica la leggenda italiana fatta di ottimismi schizofrenici e rassicurazioni irrealistiche che conducono, tutte, verso un’identica e comune calamità: l’inanità di un “de profundis” ormai passato ma non lasciato alle spalle, trasformatosi anzi nel desolante presente cui tutti partecipiamo, fantasmi inconsapevoli ma non per questo innocenti. Come concludeva la “Canzone del Maggio” nella traduzione di Fabrizio De André: “per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”.

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022, insieme a Viviana E. Gabrini). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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