Un’autobiografia satirica, non autorizzata ma inconfutabile, delle ipocrisie degli intellettuali di sinistra. Dov’è Mario? è una miniserie Wildside-Sky (la seconda puntata oggi, Sky Atlantic ore 21.10), scritta (con Mattia Torre, già anima della serie cult Boris) e interpretata da Corrado Guzzanti (Roma, 1965) nei panni di Mario Bambea, un radical chic alle prese con il coatto Bizio, alter ego in cui si è sdoppiato dopo un misterioso incidente d’auto. Se Bambea va ai convegni di Bobbio, Bizio va a escort (la statuaria Virginia Raffaele) e, poiché di corpo ce ne è uno solo, anche l’intellettuale si ritrova a letto con la escort. Bizio leggerà Bobbio? Intanto usa una poetessa romena come badante e spalla comica. Purissima schizofrenia al potere.
Parliamo con Guzzanti via Skypee ha un doppio effetto straniante. Il segnale è disturbato e sembra di stare dentro una classica scena di Aniene, la fiction Sky dove il giovane bamboccione nordico ha problemi (anche) a parlare con il padre, che vive oltre le nuvole, dove c’è poco campo, per cui si rimbalzano i problemi di comprensione così: «Te sento e nun te sento». E poi Guzzanti ha sull’account Skype la chioma antecedente la rasatura servita per indossare la parrucca di Bambea, rasatura con cui compare in collegamento. Passati al telefono fisso, c’è solo un dubbio preliminare: non è che uno scherzo telefonico di quelli che faceva Paolo Guzzanti imitando Pertini o Scalfari? «No, sono io e poi - aggiunge Corrado - non mi piacciono gli scherzi telefonici».
Com’è nato Bambea?
«Bambea è un mix tra Rocky Balboa, bambino e Bambi: c’è coraggio, rimbambimento e innocenza. Il nome adatto a un personaggio contraddittorio, serio ma comico, un intellettuale in difficoltà con se stesso perché si è illuso di essere sopravvissuto all’epoca berlusconiana. Il trauma cranico seguito a un incidente ha liberato una sua latente personalità che è tutto ciò che ha sempre odiato ma voleva essere. Dottor Jekyll e Mister Hyde, ma non è chiaro chi sia il mostro, sono mostruosi entrambi. Per il ciuffo, che è una vanità ostentata, dicono che Bambea assomigli a Sgarbi, ma è casuale e per fortuna ha la erre moscia, da Bertinotti».
Bizio è oltre il trash di Lorenzo il coatto, il populista Funari, o il grezzo Aniene...
«Siamo nell’orrido. Anch’io fatico a rivedere le parti di Bizio, è troppo sgradevole, fa venire un leggero senso di nausea. È come sentire le parolacce nei tg: è la slatentizzazione, per cui chi esce da un coma resetta la personalità e inizia a far emergere un sé nascosto».
Più che la nausea di Sartre, è una nausea post-sbornia?
«Avevo scritto un monologo per Bambea in cui ricordavo di quando a 17 anni mi risvegliai in ospedale con la flebo: avevo mescolato grappa, whiskey e vino. Poi, il buio. E la sorpresa fu scoprire che avevo vagato sull’autobus parlando con uno sconosciuto. Questi 20 anni son stati così: buio e sbornia».
Un bilancio del ventennio?
«Per forza ambiguo: con Berlusconi il popolo si è liberato dalla sudditanza verso l’aristocrazia politica di figure paterne che si credevano autorevoli e forse non lo erano; poi però questo disincanto ha reso il potere adattabile a tutto».
Ha avuto un padre berlusconiano: era ingombrante come quello della sua precedente serie Sky «Aniene»?
«No, è stato liberale, ci ha lasciato fare quello che volevamo. Attorno ai trent’anni mi sono liberato dal peso del suo giudizio, crescendo inizi a cercare conferme anche fuori. Nella mia famiglia non erano molto chiari i ruoli, così noi fratelli maggiori ce li siamo un po’ dovuti inventare».
Lei non ha mai creduto alla superiorità antropologica degli anti-Cav. Perché in tanti hanno finto di crederci?
«Una generazione ha visto all’improvviso crollare le sue certezze e le ha sostituite con altro. Sta succedendo lo stesso con Trump: lo attaccano perché sono spiazzati dal fiume di cose che arrivano da lui, c’è un grosso sbilanciamento; che per reazione sta facendo crescere Sanders. Ying e Yang, Bambea e Bizio».
I Sanders anti-Berlusconi non ce l’hanno fatta, però. La reazione non basta. Occhetto, per esempio.
«Ma Occhetto non aveva capito molto, pensi all’espressione “gioiose macchine da guerra”, facevano lacrimare dal ridere»
Francesco Rutelli.
«Ricordo il primo sketch, su Rutelli, che feci: c’era lui che suonava il pianoforte cercando l’inno dell’Ulivo e senza accorgersi copiava quello di Forza Italia. Che diventava: “E Forza Ulivo / siamo tantissimi”. Si arrabbiarono molto, nel centro-sinistra, perché sembrava eccessivamente crudele. Comunque lì forse c’era il seme di certo renzismo di oggi. Lo spiega bene Francesco Piccolo: la sinistra invidia alla destra quel grado di populismo capace di liberare anche la pancia, di non sembrare sempre dei farraginosi giocatori di scacchi. Questa è una cosa di cui la destra ha fatto una parodia e la sinistra l’ha sofferta, un complesso di cui tutti oggi sono felici di liberarsi».
Lei ha un suo alter ego?
«Uno? Ne ho almeno 6 o 7, per far posto a uno completamente opposto a me dovrei toglierne di mezzo 3 o 4 che già ci sono».
Lei ha qualche momento in stile Bizio?
«Sì, dico cose irripetibili a cena con amici insospettabili. Però poi resetto tutto. Ho un ottimo cip della rimozione».
E i momenti in stile Bambea?
«A volte sembro snob, che sto sulle mie. Ma magari ho solo l’aria assorta. Me lo fanno notare, e mi fido. Se invece me ne accorgo, mi sfotto da solo. La mia satira è innanzitutto auto-satira. Sono stato sempre molto timido e ho capito tardi che la mia incapacità di entrare in relazione viene scambiata per altezzosità».
Un esempio concreto?
«Beh, oggi firmo solo lo stretto indispensabile. Parlo delle petizioni. Per anni si firmava per tutto, anche cose palesemente inutili. Pensavamo che se raccogli 80 mila firme sei dalla parte giusta e cambierai le cose. Ma era diventato uno sport, che puntava su qualcosa di subdolo: il senso di colpa, quello ti fa firmare. Si riduceva la democrazia e noi credevamo di allargarla. Il punto più basso è stato quando la Rete si muoveva per qualsiasi cosa contro Berlusconi, per chiedere le dimissioni. Nasce lì questa ossessione nel chiedere le dimissioni, anche oggi».
La serie sembra un allegro funerale di questo intellettuale impegnato e convinto di poter cambiare il Paese.
«Funerale spero di no. La domanda è se gli intellettuali siano tutti da rottamare, anche se sofferenti, a volte odiosamente, a volte radical chic, con atteggiamenti aristocratici e snob, anche se non rappresentano più la guida morale, culturale del Paese. Spero che non sia un funerale, magari uno stimolo, sì. Non voglio essere così apocalittico. Un po’ ci giochiamo, è un modo per fare comincio out».
La tesi degli intellettuali snob però è berlusconiana.
«Lui attaccava gli intellettuali azzeccagarbugli che complicavano le cose per far sentire stupidi gli altri. Mi sembra che anche Renzi non li abbia in grande considerazione. Chissà se Renzi cambierà o resterà così, diciamo, in scia».
Al referendum, se voterà,cosa voterà?
«Sono combattuto. Propendo per il no, si limitano gli spazi di democrazia».
Seguiranno dimissioni.
«Chi chiede le dimissioni, poi non le vuole; chi le promette, non le dà: vedremo».
Dieci anni fa usciva il film «Fascisti su Marte». Roma ha conosciuto post-fascisti e marziani. Chi è stato peggio?
«Ognuno ha fatto il peggio al meglio delle sue possibilità. Da Alemanno a Marino. Non dovrei dirlo, ma credo che Roma sia insalvabile, serve una figura emergenziale per liberarla, e per ora non la vedo in nessuno dei candidati. Ma qui si tratta di cambiare, non di buttarla in politica. Non mi spaventa che Roma possa rifinire nelle mani della destra, e non credo che succederà nè mi conforta in nessuno modo l’ipotesi di continuità di centro-sinistra. Comunque è stato uno strano anniversario, di Fascisti su Marte. Eravamo con Andre Purgatori e Andrea Salerno alla Trattoria Casa Bleve, dietro al Teatro Valle, a mangiare mozzarelle,e ci siamo detti che dopo dieci anni, forse, dovremmo pensare a un sequel. Chissà».
Che spazi ha oggi la satira?
«In tv pochi, ma tanti sul web. Penso a YouTube. Un tempo, in fondo, noi avevamo lo specchio nell’armadio per studiarci, provare i numeri».
Cosa pensa dei cosiddetti «nativi digitali».
«Inquietanti! Sanno usare le tecnologie non ancora messe in commercio. E ci studiano: il figlio di mia sorella Caterina, il primo nipotino, ogni tanto mi osserva, sospira e allarga le braccia, come se mi giudicasse. Ha un’aria familiare».
La sua battuta cui è più legato?
«”Sicuramente una battuta di Quelo, il personaggio cui sono più affezionato, che è nato come un Frankenstein, da decine di pezzi di cose osservate, viste in certi canali privati e soprattutto da un momento particolare della mia vita. Io sono un nichilista perduto e senza religione, attratto anche giocosamente da forme di spiritualità come quelle new age che frequentavo in quel momento della mia vita, negli ani 90. Serviva un personaggio minore per il Pippo Kennedy Show. Allora mi invento questo tele-imponitore, fatto di un caschetto improbabile, una parrucca presa dal camerino, e poi tra baffi o niente baffi ha vinto il pizzetto, fino all’accappatoio, spiegabile forse con l’idea che all’epoca si iniziavano a diffondere questi collegamenti domestici con Internet. Ma il vero problema era fare Quelo, il feticcio di cui aveva bisogno il santone. E lì arrivò un carpentiere dello studio, uno di quelli che montava le scenografie e disse prendi questo pezzo di legno, gli mettemmo qualche chiodo e disegnammo una faccia. Nacque Quelo».
Sembra Pinocchio...
«Infatti quando ho pubblicato Il libro di Quelo l’incipit era preso da Collodi, quando scrive “C’era una volta.. — Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori. — No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno”».
Ma la battuta qual è?
«”La seconda che hai detto”. Credo che me la scriveranno anche sulla tomba»