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L’Italia «polarizzata» alla sfida degli investimenti

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L'Analisi|lo scenario

L’Italia «polarizzata» alla sfida degli investimenti

Non è più l'Italia prostrata e ferita dalla più devastante recessione dal Dopoguerra. È sopravvissuta, ma più divisa e polarizzata di prima. Non si può ancora dire che sia florida e in forze. E non vuole (o non sa o non può) rischiare: il futuro, visto dal secondo Paese più vecchio del mondo, non ha sempre il sapore di una sfida. Non c'è nemmeno più lo stellone. Poteva essere il calo inatteso del prezzo del petrolio, ma è stato un boomerang, ha solo ridotto il deficit della bolletta energetica a 30 miliardi (erano 45 nel 2014) ma ha bloccato le esportazioni verso mete per noi pregiate, alimentando la cupa aspettativa deflazionistica.
I tempi anomali dei tassi negativi e della deflazione offuscano la visione di lungo periodo e non danno smalto alla fiducia. Il Pil resta basso, la produzione è stagnante, l'occupazione migliora, gli investimenti restano la vera scommessa di un Paese sempre più divaricato tra eccellenze globali e piccoli cabotaggi arrangiati.

L'Italia che è ripartita con l'auto, con il made in Italy e con l'export; che ha archiviato la “guerra dei trent'anni” dell'articolo 18 e ora conta i segni di qualche ripresa dell'occupazione e nel reddito disponibile; che ha portato i BoT a tassi negativi e fa respirare i conti pubblici rischia, però, di tornare ad essere il Paese delle disillusioni, con i suoi dualismi, i suoi rischi e i suoi paradossi. Nord e Sud, “social” e connessi contro analfabeti digitali, piccolo e innovativo versus piccolo e old economy, piccola banca versus grande banca, giovani e anziani divisi nella lotta per la sopravvivenza del welfare.
Siamo il paese con più risparmio al mondo ma senza una vera struttura finanziaria matura; siamo il quarto paese in Europa per diffusione dei social network (28 milioni) e quello a più alto potenziale di sviluppo, ma la banda ultralarga arriva nel 22,3% del territorio contro una media europea al 64 per cento.
La base produttiva, dove ancora le imprese con meno di dieci addetti rappresentano il 95% del totale e poco meno del 50% dell'occupazione complessiva, ha lasciato sul campo un quarto delle imprese manifatturiere e della distribuzione. Nella percezione delle banche almeno un altro quarto delle attuali aziende in attività è ancora in affanno. Dal ritorno alla crescita del Pil arriva un po' di ossigeno, ma resta ossigeno da zerovirgola. C'è ripresa, ma non decollo.
L'inondazione di liquidità della Bce non arriva al sistema produttivo ed è cruciale che la turbolenza volatile dei mercati non intacchi come ruggine l'economia reale: a volte “il cavallo non beve”, ma più spesso la liquidità resta parcheggiata per evitare gli strali della vigilanza Bce e la punizione degli aumenti di capitale. Gli effetti del nuovo Tltro della Bce si devono ancora misurare. Dalle prime trimestrali si vede che le banche italiane vanno meglio di quanto prevedessero gli analisti: per Intesa i profitti sono in calo del 24,2% rispetto a un anno fa a 806 milioni di euro, per UniCredit scendono del 20,8% a 406 milioni. Per le banche italiane il momento è complicato dal fatto che, con i tassi negativi, si assottiglia la preziosa fonte dei ricavi legati al margini sul credito (per i primi 20 istituti italiani si sono dimezzati dal 2007 riducendosi a 430 miliardi di euro) e questo acuisce la pressione cui sono sottoposte per il problema della qualità del credito, anch'esso figlio della recessione, e delle sofferenze (quelle nette sono ridotte a 83,6 miliardi). Sia come sia, non è consolante leggere (Abi) che a gennaio «il totale dei finanziamenti in essere a famiglie e imprese ha presentato una variazione prossima allo zero (-0,5%) nei confronti di gennaio 2015».

Pil senza slancio
Domani l'Istat diffonderà il dato del primo trimestre. L'attesa è per una crescita del Pil di uno 0,2-0,3%, ma se si procede a questi ritmi l'anno si concluderà con un +1% o forse meno. L'indice anticipatore dell'Istat segnala che è in atto una fase di rallentamento dell'economia. Lo stesso presidente dell'Istat Giorgio Alleva, nell'audizione sul Def, ha messo in guardia che per raggiungere l'obiettivo dell'1,2% (peraltro già rivisto al ribasso) serve una crescita più sostenuta nel secondo semestre dell'anno. Per ora quella acquisita sarebbe dello 0,6%. E non è certo sufficiente a colmare il divario tra il Nord e il Mezzogiorno che ha perso, dalla crisi a oggi, il 13,3% del Pil.

Produzione industriale ferma
Marzo su febbraio 2016 ha gelato gli ottimisti con uno zero tondo nella variazione della produzione industriale. Il trimestre può consolare con un +0,7%, il dato comparabile della Germania è all'1%, quello della Francia a -0,6 per cento. Sta rallentando anche l'auto che nei mesi scorsi è stata protagonista della ripresa con performance a due cifre. A febbraio il 70% dei settori aveva comunque una variazione congiunturale positiva. A marzo solo il settore dei beni strumentali era in territorio positivo. Al +7,3% annuo del settore fabbricazione macchinari e attrezzature fa pendant il calo del 6,5% del settore farmaceutico e del 6% del tessile e abbigliamento. Il Csc prevede per aprile un +0,1% su marzo (aveva previsto un +0,3% su febbraio): una tendenza che trova conforto anche nella rilevazione Markit/Adaci pmi che misura gli acquisti decisi dai manager delle imprese. L'indice è in aumento ad aprile al 53,9 dal 53,5 di marzo e si tratta dell'incremento più marcato degli ultimi quattro mesi. In testa gli acquisti dei beni di investimento seguiti da quelli di consumo. Stando a Markit l'Italia sarebbe il Paese con la crescita di acquisti più accentuata d'Europa, seguito di poco dalla Spagna.

Il dualismo delle imprese
Nell'indicatore di Intesa Sanpaolo sulle performance d'impresa la parte migliore ha realizzato nel periodo 2008-2014 il 66% di incremento del fatturato, mentre la quota di imprese meno competitive ha perso il 54,9% del fatturato. C'è chi ha guadagnato molto e chi ha perso molto. I dati sulle vendite di macchine utensili sono tra i più brillanti: i dati del settore (Ucimu) del primo trimestre 2016 mostrano una crescita del 31% sul trimestre di riferimento 2015. Le imprese hanno risposto molto bene alle agevolazioni previste dalla legge Sabatini sull'acquisto di macchinari e al cosiddetto super-ammortamento al 140% per i nuovi beni strumentali.

Investimenti, la grande attesa
Il Def prevede investimenti fissi lordi in crescita del 2% che saliranno al 3% nel 2018. È decisiva la partita con Bruxelles sulla flessibilità nei conti per allargare lo spazio di manovra. Quanto agli investimenti privati resta più incertezza: le stime dell'ufficio studi di Intesa Sanpaolo prevedono un +2% in investimenti fissi in macchinari nel 2016 del 6,1% nei trasporti e dello 0,5% in costruzioni. Le costruzioni sono uno dei punti dolenti. Nel 2015 gli investimenti erano calati dello 0,9%; il 2015 si è chiuso, nell'ultimo trimestre, con un +1,5% nella produzione del settore, dopo cinque anni vita grama. L'Ance ha stimato un calo del 34,2% negli investimenti nel periodo 2008-16. A febbraio la fiducia del settore però era l'unica a segnare un dato di miglioramento. Per Scenari Immobiliari «il 2015 ha confermato le aspettative di ripresa delle compravendite, attestandosi su 445mila, con un incremento del 7,2% rispetto all'anno precedente». I mutui in un anno sono quasi raddoppiati, il 40% però sono surroghe. La domanda di nuovi mutui nel primo trimestre 2016 fa segnare una crescita del 31% sul primo trimestre 2015. La quota di invenduto rimane comunque altissima.

Il lavoro, la riforma paga
La forbice tra il numero di occupati e i disoccupati si allarga secondo un andamento finalmente più fisiologico. La crisi ha bruciato un milione di posti di lavoro, ne abbiamo recuperati meno della metà. A marzo si contavano 90mila occupati in più (la gran parte lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e over 50) e 63mila disoccupati in meno. Gli inattivi erano calati di 36mila unità. Il tasso di disoccupazione scende all'11,4%. Il jobs act funziona e funzionano gli incentivi della decontribuzione.

Le nuove rotte dell'export
È finito il tempo dei Brics. La Russia è in recessione, il Brasile in coma, la Cina dà segni di tenuta ma i volumi dell'export italiano sono ancora scarsi. Le esportazioni hanno beneficiato dell'effetto cambio (quando l'euro era a 1,05-1,076 sul dollaro) verso le aree del dollaro (Usa in testa), ma ora sono in rallentamento. L'Italia conta anche sull'export intra-europeo: la Germania e la Francia conoscono una forte accelerazione della domanda interna e questo, soprattutto nel caso tedesco, significa sfogo anche per le nostre merci. Il dato inatteso del primo trimestre per la crescita in Europa (+0,6%) può far ben sperare anche per le produzioni italiane.
Nell'ultimo anno, complici le cadute economiche di Russia (-24,8% il nostro export verso Mosca) e Brasile (-17,4%) e la frenata di Pechino (-0,9%), le esportazioni manifatturiere verso i Brics si sono ridotte di oltre dieci punti percentuali. Al contrario le nuove rotte verso i cosiddetti Ticks (Taiwan, India, Cina e Corea del Sud) sono cresciute di quasi quattro punti, grazie al traino di Taiwan (+12,4%) e Corea del Sud (+8,4%). La Cina resta la grande incognita: non è un'economia di mercato ma ne vorrebbe lo status per regolare i traffici con l'Europa. Da partner prezioso diventerebbe un ulteriore pericolo per le produzioni italiane.

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