Esteri

Italiani rapiti in Libia, la rabbia del governo: "La Bonatti li ha mandati allo sbaraglio"

(ansa)
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ROMA - L'incubo di Palazzo Chigi e della Farnesina torna a manifestarsi in quel deserto senza legge né padroni dove il governo e la diplomazia italiane pensavano di averlo seppellito il 9 giugno. Quando era stato pagato un prezzo politico altissimo per la mediazione del "governo" islamista non riconosciuto di Tripoli nella liberazione di Ignazio Scaravilli, il medico catanese sessantottenne prigioniero per sei mesi in Libia e, fino a domenica, ultimo ostaggio italiano sicuramente in vita di cui si era persa traccia nelle diverse zone di crisi nel mondo.

Senza girarci intorno, una qualificata fonte di Intelligence, la racconta così: "Una gran brutta faccenda, da qualunque parte la si voglia prendere, soprattutto se il sequestro dovesse avvitarsi, come è purtroppo scontato prevedere, nel gioco infernale della polveriera libica e delle sue fazioni". Capace di scatenare la profonda irritazione di Palazzo Chigi, "semplicemente incredulo  -  così ne riferisce una fonte di governo  - per le modalità con cui il sequestro è avvenuto". E ancora, prosegue la stessa fonte, facendo riferimento ad Eni e Bonatti, "per l'incredibile leggerezza con cui aziende italiane strategiche impegnate in un quadrante di mondo dove l'Italia non ha più un'ambasciata e dove i protocolli di sicurezza devono essere stringenti, non hanno evidentemente saputo proteggere i propri dipendenti integrando le proprie procedure".

In questa storia, infatti, quel che è certo è che Filippo Calcagno, Salvatore Failla, Fausto Piano e Gino Pollicardo sono stati sequestrati in circostanze sorprendenti. Rientrati da un periodo di vacanza in Italia, erano volati a Tunisi domenica e da lì, su mini-van con autista libico, come si trattasse di un banale servizio navetta, avevano percorso la lunga autostrada costiera che, attraversato il confine meridionale della Tunisia, punta a est verso Zuwara e il complesso di Mellitah. Dove lavoravano alla manutenzione e dove non sono mai arrivati. Perché fermati intorno alle 21 a un posto di blocco da miliziani che li hanno caricati su altri mezzi dopo aver immobilizzato e lasciato sul van che li trasportava l'autista libico. Nessuna scorta, dunque.

Nessuna particolare precauzione o protocollo, come se la Bonatti ritenesse di potersi muovere in quell'area in forza di una speciale immunità. Che eviden- temente non si acquista una volta per tutte. E, soprattutto, non con tutte le milizie che insistono in quel conteso quadrante libico e pretendono regolarmente denaro in cambio di protezione. Un'immunità, va aggiunto, che evidentemente non si acquista neppure sotto l'ombrello Eni, i cui protocolli di sicurezza, per altro, la Bonatti non rispettava o, a quanto pare, non era tenuta a rispettare (dal febbraio scorso, tutto il personale Eni ancora in Libia, una ventina di tecnici, è sulle piattaforme off-shore e i trasferimenti a terra, se necessari, avvengono solo via mare dopo trasferimento in elicottero a Malta). Per quali motivi Bonatti ed Eni non condividessero un protocollo di sicurezza comune (essendo per altro Eni il gestore di fatto dell'impianto) non è dato sapere, né, raggiunto telefonicamente, il portavoce della società di Parma ha ritenuto di poterlo o doverlo spiegare. Al di là del dato puramente formale che la Bonatti operava come
contractor della "Mellitah Oil and Gas", la società libica "proxy" con cui Eni, attraverso la holding mista Noc, gestisce l'estrazione di 300 mila barili di petrolio al giorno e il flusso di gas di Greenstream.

E dire che anche le vicende delle ultime settimane consigliavano estrema attenzione. Non più tardi di un mese fa, tra Tripoli e Sabrata, era stato infatti sequestrato da un gruppo di predoni, peraltro attivi anche nel controllo dei trafficanti di esseri umani sulla rotta per Lampedusa, l'amministratore della "Mellitah Oil and gas", Youssuf Al Shamani, rilasciato dopo quattro giorni dopo il pagamento di un importante riscatto. Una traccia che, in queste ore, fa coltivare alla nostra Intelligence la speranza che anche il sequestro dei nostri quattro tecnici abbia la stessa mano. Non fosse altro perché ogni altro scenario non avrebbe solo il colore dei dollari, ma quello, esiziale, del ricatto politico.

Un prezzo altissimo per un Paese come l'Italia, che si ritroverebbe ad essere player della stabilizzazione libica dalle mani legate. E che porta dritto dritto alle milizie che insistono in quell'area. Dai salafiti di Ansar Al Sharia alle milizie filo Tobruk di Jeish Al Qabail a quelle filo-tripoli di Farj. Ognuna con una propria agenda. E, quel che è peggio, ognuna pronta a comprare tutti o una parte degli ostaggi. Già, perché. Non fosse altro perché in quel lembo di deserto da tempo ha preso ad allungarsi l'ombra dell'Is, che lì ha un solo ramo della sua fabbrica del terrore: i sequestri.