Milano, 6 febbraio 2017 - 12:36

Nucleare, la storia infinita di Sogin
I reattori italiani? Sono ancora tutti lì

La promessa dei nuovi vertici: entro il 2019 si inizia a smantellare il Garigliano. I progetti sempre rimandati dell’azienda pubblica e la spesa crescente per bonificare i siti. La ricaduta sulle bollette: venti miliardi di euro

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La Sogin inizia a fare sul serio? La promessa dei nuovi vertici, l’amministratore delegato Luca Desiata e il presidente Marco Ricotti, è «sfidante» e i termini utilizzati accattivanti: «Iniziare l’attacco a un vessel entro la fine del nostro mandato», ovvero entro il 2019. Un «vessel» è in sostanza il cuore di una centrale nucleare, il contenitore d’acciaio dove c’è il reattore, un posto insomma molto pericoloso da smantellare. Il prescelto sarà quello del Garigliano, all’interno dello storico cappuccio bianco realizzato dalle Acciaierie Terni tra il 1959 e il 1963. Impossibile, infatti, partire con Trino Vercellese per i ritardi finora accumulati sui circuiti primari, mentre di Caorso, vicino Piacenza, neanche parlarne, visto che non ci sono i depositi temporanei necessari.

I dubbi

Bene, tutto ciò significa quindi che il «decommissioning» degli impianti della stagione nucleare italiana chiusa con il primo referendum del 1987 finalmente entra nel vivo? Malgrado la «sfida» degli ingegneri nucleari Desiata-Ricotti, e considerando le performance passate, c’è da dubitarne, sperando fortemente di essere smentiti. La domanda da farsi, in realtà, è un’altra: come mai dal 1987 ad oggi non ci si è neppure avvicinati all’ «attacco» di quella che dovrebbe essere l’attività principale della Sogin, creatura statale posseduta al 100% dal ministero dell’Economia? E basterà poi smontare un bullone del famigerato vessel per proclamare di aver vinto una sfida che, nei 45 anni (sì, 45 anni) che passeranno dal referendum del 1987 al 2032 – data di fine lavori sugli ultimi impianti da smantellare – potrebbe essere costata al contribuente italiano più di 20 miliardi di euro? Quella della Sogin è a suo modo una storia simbolo delle potenzialità e anche delle incapacità del sistema amministrativo e manageriale pubblico di gestire vicende complesse. Bastano un altro paio di numeri tra quelli emersi negli anni scorsi dalle innumerevoli audizioni parlamentari per far capire quanto sia difficile stabilire punti fissi e porre un argine agli sforamenti: nel 2014 il precedente capoazienda Riccardo Casale dichiarava che al suo arrivo lo stato dello smantellamento nucleare era al 22%. Lo scorso gennaio, per Desiata, si era al 25%. Questo 3% realizzato in tre anni dalla gestione Casale condurrebbe dritto ad un’attesa di altri 75 anni. Al costo di 130 milioni l’anno, la cifra che serve solamente a tenere in piedi la struttura e a garantire la sicurezza delle centrali. Un circolo vizioso: per ogni anno che passa le strutture invecchiano e la sicurezza si fa più complicata. E più costoso si fa il decommissioning.

L’escalation dei costi

I piani susseguitisi dal 2008 in poi, quello del 2013 e quello del 2014 (l’ultimo conosciuto) hanno di volta in volta spostato avanti nel tempo l’asticella. Nel 2008 si pensava di poter chiudere la partita smantellamento nel 2019, con un costo stimato di 4,3 miliardi di euro (cui dovrebbero però aggiungersi i 900 milioni necessari per trasferire i rifiuti radioattivi dagli impianti al futuro Deposito nazionale). Nel 2013 si era già arrivati al 2025, con un costo lievitato a 6,3 miliardi. Nel 2014 si è passati al 2032, e ora si attende il nuovo piano quadriennale. Ma l’escalation dei costi di tutte le componenti dell’attività Sogin è impressionante. Non solo di quelli «fissi» di personale e sicurezza, ma anche di quelli del decommissioning vero e proprio (in media oltre 100 milioni l’anno, cifre tutte documentate nelle schede inviate all’Autorità energia) e della «gestione del combustibile». Non solo perché l’Italia ha deciso di «scambiare» (a pagamento) con il Regno Unito 5 mila metri cubi di rifiuti a bassa attività con un metro cubo ad alta intensità, ma anche perché in caso di indisponibilità (leggi: ritardo) del Deposito nazionale bisognerà pagare ogni anno 50-60 milioni di euro in penali a chi ci sta custodendo le scorie. Il contratto con la Francia scade nel 2025, mentre con il Regno Unito si sta negoziando il differimento (sempre a pagamento e questa volta inevitabile) dal 2019 al 2025.

Memoria storica

Totale? Si potrebbe così arrivare a 10 miliardi di euro, cui aggiungere 1,5 miliardi per la costruzione del Deposito e 900 milioni per il trasferimento dei rifiuti. Poi ci vuole anche un po’ di memoria storica: non bisogna infatti dimenticarsi che se la Sogin esiste dal 2001, negli anni precedenti gli italiani hanno versato in bolletta (componente A2) fior di oneri per indennizzare l’Enel di allora dall’uscita dal nucleare decisa nel 1987. Secondo qualche calcolo i rimborsi per Enel e imprese appaltatrici hanno toccato quasi 15 mila miliardi di lire, ovvero 7,5 miliardi di euro. Il che fa sconsolatamente aumentare il conto dell’addio al nucleare a 20 miliardi di euro. Pagati centesimo su centesimo dai consumatori in bolletta. Riusciranno Desiata e Ricotti a invertire il trend? L’eredità è pesante sotto altri punti di vista. Anche qui non solamente per una consistenza di personale che dopo le riduzioni registrate tra il 2006 e il 2009 è risalita tra il 2010 e il 2015 da 675 a 1033unità (con il record di assunzioni, 110, nel 2015), ma soprattutto perché le attività effettivamente eseguite sono regolarmente state al di sotto di quanto programmato, situazione più volte denunciata dal precedente presidente Giuseppe Zollino. Nel 2016, ad esempio, circa 55 milioni sui 95-102 dei programmi originari (vedi tabella a fianco). Con casi a loro modo significativi e che parlano da soli come quello del Cemex, dove sono custoditi i rifiuti radioattivi liquidi di Saluggia (Vercelli) che devono essere cementificati. Sono di gran lunga i rifiuti più pericolosi d’Italia e nel 2000 furono sfiorati dalla piena della Dora. Tristemente noto per l’inchiesta Expo, il Cemex è ora davanti a un altro stallo, questa volta contrattuale, con lo stesso consorzio Saipem-Maltauro-Areva. Un contratto fatto male, in sintesi estrema, che sta causando un contenzioso intricato che ferma lavori per 100 milioni di euro. Una caso a sé, infine, è quello del Deposito nazionale che dovrà raccogliere tutti i rifiuti radioattivi. Un’emergenza costantemente subordinata ad altre emergenze, soprattutto elettorali. Chi avrà il coraggio di rivelare la famosa «Carta delle aree potenzialmente idonee» ad ospitarlo, scatenando magari le popolazioni (e gli elettori) interessati? Finora nessuno, neppure un «tecnico» come il ministro Carlo Calenda. Ma, tanto, a pagare i 50-60 milioni l’anno a Francia e Regno Unito, dal 2025, non sarà la stessa classe politica, nazionale o locale, di oggi.

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