Il papa e il sultano
A 59 anni dalla visita di Celal Bayar e a 58 dall'apertura delle relazioni diplomatiche, un presidente della Repubblica di Turchia torna in Vaticano.
Il clima nel quale si è svolto l’incontro bilaterale tra Recep Tayyip Erdoğan e papa Francesco conferma che la crisi causata dall’uso nell’aprile 2015 da parte del pontefice della “parola che inizia con la G” per definire il massacro degli armeni - incidente che indusse Ankara a richiamare il proprio ambasciatore - è definitivamente alle spalle. In pubblico, le critiche del pontefice al presidente turco si sono limitate al regalo “subliminale” di un medaglione che rappresenta un mondo retto sulla pace e la giustizia.
A riavvicinare Erdoğan e papa Francesco, primo leader straniero ospitato dal presidente turco nel palazzo presidenziale di stile neo-selgiuchide, è stato Donald Trump. I due leader si sono sentiti telefonicamente immediatamente dopo la decisione del presidente di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme.
Nella fase successiva al 6 dicembre, Ankara e Vaticano hanno coordinato le proprie mosse. Con l’incontro di oggi- durato più un’ora, oltre il doppio di quello tra Francesco e il presidente degli Stati Uniti - Erdoğan punta a consolidare l’asse con il papa. Non solo su Gerusalemme. All’ordine del giorno del bilaterale c’era anche la Siria, dove la Turchia ha consolidato la propria posizione in vista del braccio di ferro finale.
La visita in Vaticano è inoltre in continuità con quella a Parigi di inizio anno. Sono entrambe conseguenza della nuova centralità raggiunta dal presidente turco nell’equazione geopolitica eurasiatica. L’Europa occidentale aveva messo al bando Erdoğan dopo Gezi Park. Oggi, più forte che mai, Erdoğan intende imporre la sua presenza, a modo suo, agli europei. Se a Parigi si era trattato verosimilmente di “autoinvito”, non c’è dubbio sul fatto che a convocare Erdoğan in Vaticano sia stato papa Francesco.
Si tratta di un invito che, dalla prospettiva del reis, assume carattere legittimante. Il direttore di uno degli organi di stampa più vicini all’Ak Parti, İbrahim Karagül, ha avvertito i turchi che devono “abituarsi a vincere”. L’incontro con papa Francesco - avvenuto mentre gran parte dell’opinione pubblica occidentale mette sotto accusa l'operazione "Ramo d'ulivo" della Turchia - è in tal senso una vittoria che vale quasi quanto Afrin.
I 5 LUOGHI CHIAVE DI OGGI
CIPRO [di Massimiliano Sfregola]
Il presidente uscente Nicos Anastasiades ha agguantato un secondo mandato e si appresta a guidare il paese per i prossimi cinque anni.Una vittoria facile e senza troppi rischi nonostante il ballottaggio (vinto con il 55,99% dei voti), che non lascia tuttavia trapelare quale approccio Anastasiades riserverà alla questione territoriale con i turco-ciprioti. La trattative è collassata la scorsa estate dopo la stagione più promettente dai tempi dell'occupazione turca del 1974 e visto l'approssimarsi di appuntamenti elettorali - tanto a Nord, quanto a Sud - dal luglio i colloqui hanno subito una battuta d'arresto.
Ma la maggioranza nazionalista uscita dalle urne nella Repubblica turco-cipriota non rende facile il lavoro di Anastasiades, sostenitore della riunificazione nelle forme di una federazione tra greci e turchi. L'Onu conta di discutere la prossima estate il destino della missione di peacekeeping a Cipro, al momento la più longeva con personale militare. Non è escluso che l'Onu decida di terminare la missione, lasciando sull'isola solo degli osservatori per monitorare il rispetto del cessate-il-fuoco. E mettere pressione alle parti.Per la prima volta nella storia delle elezioni post-divisione, la partita infinita con la Turchia e i turco-ciprioti non è entrata nella campagna elettorale. Anastasiades si è concentrato sul tema della ripresa economica e sulla crescita, evitando sapientemente di finire nel cul-de-sac della questione territoriale. Su questo tema, ormai, c'è ben poco da aggiungere: o si riunifica l'isola - e in fretta - oppure ne va ufficializzata la partizione.SUD SUDAN [di Rino Tavarelli]
Venerdì 2 febbraio gli Stati Uniti hanno imposto un embargo sulle armi contro il Sud Sudan. Mentre l’Unione Europea ha annunciato l’adozione di misure restrittive individuali contro tre importanti figure politico-militari sudsudanesi (due al governo, una all’opposizione), accusate di ostacolare il processo di pace nel paese.Tali provvedimenti arrivano alla vigilia dell’avvio della seconda fase dei negoziati di pace, che si apre oggi ad Addis Abeba. Perciò il valore simbolico di queste decisioni è alto: la comunità internazionale non solo segue le trattative, ma è pronta ad agire contro chi sta provando a boicottarle.Il negoziato ha l’obiettivo di “riattivare” le prescrizioni istituzionali e la spartizione del potere sancite nell’accordo di pace dell’agosto 2015, firmato obtorto collo dal governo di Salva Kiir e dai suoi oppositori. La prima tornata del dialogo – noto come High level revitalization forum (Hlrf) e guidato dall’organizzazione regionale Igad (Inter-governamental authority for development) – aveva portato in dote un’intesa sulla cessazione delle ostilità, sulla protezione dei civili e sui canali umanitari, entrata in vigore la vigilia di Natale 2017 e immediatamente violata.COREE
Il capo di Stato de jure della Corea del Nord, Kim Yong-nam, presenzierà alla cerimonia di apertura dei giochi olimpici che il Sud ospiterà a Pyeongchang dal 9 al 25 febbraio. L'annuncio conferma l'apparente clima distensivo tra le due coree, a dispetto dei moniti di Trump e Abe sulle reali intenzioni del regime di Kim.Eppure, come ha scritto su Limesonline Fabrizio Maronta, non sarà l'Olimpiade a denuclearizzare la Corea del Nord:Il recente accordo con cui le due Coree hanno pattuito una presenza nordcoreana alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, in Corea del Sud, è stato salutato come una vittoria della “diplomazia dello sport”. Il presidente del Comitato olimpico internazionale, Thomas Bach, ha dichiarato che la decisione di P’yongyang di inviare una delegazione ai giochi è “un grande passo avanti nello spirito olimpico”.
I fatti parlano da sé e l’accordo rientra senz’altro nel novero delle buone notizie, nella misura in cui attenua la pericolosa spirale retorica che da qualche mese andava avviluppando l’instabile penisola coreana, con toni bellicosi sempre più accesi e connesso rischio di incidenti dalle conseguenze imprevedibili.
È però nei dettagli – antefatto, intenzioni e prospettive – che si nasconde il diavolo. I fatti, specie in una partita delicata ed estenuante come quella coreana, non vanno mai decontestualizzati. E il contesto ci offre un quadro assai sfumato, che non si presta a trionfalismi estemporanei.
Sono apparentemente tre i motivi che hanno convinto P’yongyang ad afferrare il ramoscello d’ulivo tesole dal presidente sudcoreano Moon Jae-in, avvocato specializzato in diritti umani giunto alla Casa Blu con il dichiarato intento di resuscitare la sunshine policy, lo sforzo di normalizzazione delle relazioni intercoreane inaugurato a fine anni Novanta dall’allora premier Kim Dae-jung. Si tratta di ottimi motivi, ma non necessariamente nel senso auspicato da Corea del Sud, Stati Uniti e molti altri.
BRUXELLES/PARIGI
Oggi è iniziato in Belgio il processo a Salah Abdeslam, ritenuto l'unico terrorista delle stragi di Parigi [13/11/2015] ancora in vita.Dall'editoriale di Limes 11/15 La strategia della paura, dedicato agli attentati perpetrati nella capitale di Francia:Il terrorista porge al nemico la corda con cui impiccarsi. Il nodo scorsoio offertoci dai jihadisti ha un nome: guerra al terrorismo. Di più: «guerra all’islamismo radicale» secondo il presidente della Repubblica Francese François Hollande, o addirittura al «salafismo», come specifica il suo primo ministro Manuel Valls, evocando gli epigoni del movimento riformista musulmano che nell’Ottocento predicava il «ritorno agli antenati».
Dopo le stragi del 13 novembre, perpetrate nel cuore di Parigi da un manipolo di terroristi francesi e belgi di origine araba più o meno collegati allo Stato Islamico (Is), la Francia sembra aver vestito la divisa della guerra di religione. E con essa parte dell’Occidente, a cominciare dal vicino Belgio, base logistica dei jihadisti che hanno massacrato 130 innocenti nei caffè e nei teatri della Ville Lumière.«Terrorismo» è termine inflazionato. Marchio con cui bollare il nemico, non categoria euristica. Eppure mai come oggi, quando l’emozione e la rabbia minacciano di prendere il sopravvento sulla ragione, è opportuno ricordare a noi stessi che il terrorismo è una tecnica di combattimento.Continua a leggere l'articolo
LIMESNERD Gli anniversari geopolitici del 5 febbraio.