In apparenza il «Fila» è un campo di pallone, inaugurato il 17 ottobre di ottantanove anni fa dal principe Umberto di Savoia; lo stadio dove il Grande Torino disputò cento partite senza perderne neanche una; un ammasso di sterpaglie e un ricovero per gatti e barboni da quando sul finire del millennio venne abbattuto con la promessa mendace di una ricostruzione immediata. Nella realtà è il tempio di una fede laica che mescola amore e morte, speranza e nostalgia; il luogo fisico in cui si tramanda la memoria di un rito che attraversa le generazioni e prende le mosse da una vicenda futile come il calcio per sfiorare valori universali.

Il «Fila» sono le mie scarpe di bambino che scalpicciano sulla ghiaia del cortile d’ingresso; è il mio respiro trattenuto come sulla soglia di un castello incantato.

È la manona di papà che mi trasporta lungo le scalinate fino al gradino dei suoi vent’anni, quando la domenica prendeva il tram o la bici e andava in via Filadelfia ad ammirare le imprese di una squadra di campioni che lui non ha mai smesso di chiamare Quelli Là.

IL MENTORE VATTA

Il «Fila» è un vecchio alpino con la penna granata nel cappello che parla solo in piemontese e descrive partite come se fossero battaglie e battaglie come se fossero partite a una cerchia di ragazzini che lo ascoltano a bocca aperta. È un giovane attaccante in castigo, obbligato dall’allenatore a calciare palloni contro un muro del cortile, che si lascia andare sfinito sul selciato. Ma siamo anche noi che gli gridiamo: «Non mollare, Pupi!»; lui sorride asciugandosi una lacrima quasi fosse una goccia di sudore e si rialza per diventare Puliciclone, il più grande bomber granata dell’era moderna. Il «Fila» sono io che un sabato mattina evado da scuola fingendo un malore per andare a vedere l’ultimo allenamento prima del derby, con Claudio Sala che prova e riprova le sue micidiali punizioni a foglia morta.

È la stanza dei trofei dove comanda l’avvocato Cozzolino, il grande sacerdote del tempio, che mi porta a toccare l’elica dell’aereo di Superga, ma io non voglio perché la morte mi fa ancora troppa paura. Sono i pulcini di nove anni che guardano giocare i ragazzi della Primavera, i ragazzi della Primavera che guardano giocare gli adulti della prima squadra, e i tifosi che guardano e rimbrottano tutti - pulcini, ragazzi, adulti - ma alla fine si va sempre via con il sorriso. È il mentore delle giovanili Sergio Vatta che abita poco distante e osserva l’allenamento della prima squadra dal balcone di casa, Radice lo vede e gli grida: «Potresti venire a insegnare ai miei difensori come si marcano gli avversari sui calci d’angolo?» e lui si infila le scarpe e scende giù. È il giorno dello scudetto, la gioia assoluta che già mentre la vivi all’ombra di quei muri scrostati ti sembra un ricordo da rimpiangere.

RICORDI INDELEBILI

È il mio battesimo da collaboratore, mille lire a notizia e cinquemila ad articolo, una sera gelida di trent’anni fa: nel cortile non c’è più nessuno, io busso tremebondo alla porticina degli spogliatoi e mi viene ad aprire Gigi Radice in persona e accappatoio bianco. «Ostia, ragazzo, e tu chi sei?». «Buonasera mister, mi chiamo Massimo Gramellini e sono un giornalista...» «Mamma mia che paura! Vieni dentro, altrimenti muori di freddo» e mi fa entrare dove neanche mio padre aveva potuto guidarmi mai, negli spogliatoi in cui si cambiava Valentino Mazzola e ora ci sono Dossena e Junior in mutande che incredibilmente accettano di farsi intervistare da me. Il «Fila» è Gigi Radice un anno dopo che, vedendomi per la prima volta vestito in modo decente, interrompe la conferenza stampa e sbotta: «Uèla, ragazzo, è scoppiato il benessere!»

Il «Fila» è il funerale di papà in un ferragosto di fine millennio, il carro funebre che percorre una via Filadelfia deserta e starebbe per girare in corso Unione Sovietica se non fosse che io impazzisco e dico all’autista: «Non potrebbe fargli fare un ultimo giro intorno allo stadio dove ha passato le domeniche della sua giovinezza?». Il «Fila» è l’autista del carro funebre, più pazzo e più granata di me, che non fa una piega e punta verso quello che resta dello stadio, un rudere spiaggiato in mezzo alle erbacce, e concede a mio padre il giro d’onore. È don Aldo che dice messa davanti allo spunzone della tribuna. Sono i bimbi che la mattina della Marcia dell’Orgoglio Granata corrono sul campo ripulito dagli «angeli del Filadelfia» mentre i loro genitori li seguono con le lacrime agli occhi: «Fate piano, ché state calpestando le orme del Grande Torino!» Quelli Là.

COME ITACA

Ecco, se avete resistito fin qui, vi sarete fatti un’idea di che cosa sia il «Fila». Una storia che riguarda tutti, perché tutti conservano in fondo al cuore la memoria di una casa del Padre a cui desiderano fare ritorno. Itaca. Il punto di partenza che in ogni grande romanzo di avventure è anche, sempre, il punto di arrivo. Stamattina, ottantanove anni dopo, con la posa della prima pietra il «Fila» comincia a rinascere e molti di noi con lui.