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Questo articolo è stato pubblicato il 17 gennaio 2011 alle ore 06:36.
Nel Faust di Goethe, Mefistofele suggerisce all'imperatore un rimedio sicuro per uscire dagli impicci: stampare moneta. Nel breve andare, soprattutto quando i cittadini sono già sottoposti a sacrifici e privazioni, l'inflazione - che si spera sempre resti moderata - sorride come soluzione meno impopolare rispetto a nuove imposte. In particolare, la necessità di finanziare una guerra rende quasi sempre irresistibile la tentazione mefistofelica. Così è stato anche nei 150 anni di storia dell'Italia unita.
Il nuovo Regno non aveva ancora compiuto cinque anni quando si alleò con la Prussia per strappare il Veneto all'Austria. La lira era, allora, convertibile in oro. Per indurre le banche a finanziare la guerra, il governo sospese la convertibilità delle banconote, che poterono essere stampate in quantità maggiore rispetto al limite consentito dall'obbligo di cambiarle in oro. La guerra per fortuna fu breve: l'aumento dei prezzi fu modesto e la svalutazione del cambio aiutò le esportazioni. Ben diversi furono gli effetti del ricorso alla stampa di moneta durante le due guerre mondiali. Se controlli e razionamenti permisero di contenere l'aumento dei prezzi dei generi di prima necessità durante le ostilità, l'inflazione esplose nel dopoguerra. Tra il 1918 e il 1922, la lira perse un quarto del proprio valore; ne perse la metà nel quinquennio 1945-49. Mussolini stupì Keynes nel "dare l'olio di ricino alla lira": non solo l'inflazione fu fermata ma i prezzi diminuirono a forza di "tagli salariali" e interventi diretti delle stesse camicie nere sui commercianti, oltre che, naturalmente, per la stretta monetaria di Volpi. Nel secondo dopoguerra, l'inflazione galoppante fu fermata da Einaudi e Menichella con una credibile manovra di riduzione della liquidità bancaria. L'inflazione degli anni quaranta ebbe una conseguenza benefica, non sappiamo bene se voluta o meno: la Repubblica nacque con un debito pubblico modesto (contrariamente a quanto era successo al Regno d'Italia, 87 anni prima).
In un caso la forte inflazione non nacque dalla guerra. Tra il 1976 e il 1980, la lira perse il 46 per cento del proprio valore: i prezzi aumentarono più rapidamente che nel primo dopoguerra. La ragione di questa esplosione fu altrettanto mefistofelica, senza la forte scusante delle necessità belliche. Governi deboli, come l'imperatore del Faust, ricorsero alla stampa di moneta come al mezzo politicamente meno costoso per accomodare le enormi tensioni sociali esplose negli anni Settanta. Era, nelle circostanze del tempo, una via obbligata? Difficile dirlo. Fatto sta che le aspettative di rialzo dei prezzi misero radici, grazie anche a un assurdo meccanismo di indicizzazione salariale. Estirparle fu costoso, in termini di crescita e di occupazione. Aiutò la scelta di aderire al sistema monetario europeo. Un coraggioso ministro del Tesoro ruppe il cordone ombelicale che obbligava la Banca d'Italia a finanziare lo stato quasi a piè di lista. Le attese di inflazione furono ridotte ma non del tutto domate. All'imperatore restò un solo mezzo, altrettanto mefistofelico, per evitare radicali di politica economica: il ricorso al debito. Ne fece uso senza ritegno.