Doppio livello - Appendice I

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Il libro

L’Italia è un paese sempre in cerca della verità, incapace di fare i conti col proprio passato. Il doppio livello non è la fotografia di una mente diabolica che avrebbe deciso i destini del nostro paese. Il doppio livello è un progetto di potere, chiaro e organizzatissimo, il cui esito finale è sempre stato quello di camuffare e coprire con «false bandiere» il reale corso degli avvenimenti. Non un contropotere, ma il potere tout court: cinico, invisibile, violento. In questo libro trovate i nomi e le biografie di chi è coinvolto nella destabilizzazione che ha segnato il nostro paese, da Portella della Ginestra fino ai delitti eccellenti di Falcone e Borsellino passando per piazza Fontana, l’Italicus, piazza della Loggia, la P2, Gladio... Un lavoro di ricostruzione durato anni che, senza dietrologie, collega piste disseminate in decine e decine di procedimenti giudiziari. Un materiale enorme, fatto anche di testimonianze inedite e decisive come quella di un ex appartenente a Gladio che molto sa sulle dinamiche della strage di Capaci e sul perché la mafia c’entri solo in parte. L’autrice racconta la nascita della cosiddetta Rete atlantica e come sia stato possibile che uomini della Nato


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operativi nelle basi italiane e funzionari Cia abbiano stretto legami forti con appartenenti a gruppi neofascisti, da Ordine nuovo ad Avanguardia nazionale. Molti di questi diventeranno pedine dello stragismo. Il doppio livello cerca ambienti in cui infiltrarsi o da costruire ad hoc, come nel caso della P2. E uomini di fiducia, come Giulio Andreotti. Il libro dimostra che l’Italia è stata per anni eterodiretta, complice anche la fragilità istituzionale, e c’è già chi legge gli ultimi avvenimenti politici come una possibile ricaduta in un passato che a maggior ragione oggi non dobbiamo dimenticare. Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate su temi di attualità politica. Con Chiarelettere ha pubblicato L’ANELLO DELLA REPUBBLICA (2009), più volte ristampato.


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Appendice I

Le Appendici al libro Doppio livello contengono materiali per consentire l’approfondimento di tre diversi argomenti: le operazioni sotto falsa bandiera (Appendice I), i rapporti tra il bancarottiere Michele Sindona e l’agente della Cia Carlo Rocchi (Appendice II), ed infine considerazioni sugli agenti di influenza basate sull’inchiesta della procura di Aosta conosciuta come Phoney Money (Appendice III).


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Operazioni realizzate «sotto falsa bandiera»

Alcuni tra i casi più complessi della nostra storia, pur avendo trovato solo in parte una risposta in sede giudiziaria, potrebbero essere stati realizzati sotto «falsa bandiera»: parliamo della misteriosa morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli (14 marzo 1972) e degli omicidi del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972) e del giovane militante di Democrazia Proletaria, Peppino Impastato (9 maggio 1978). Ricordiamo in sintesi le tre drammatiche vicende, rilevandone gli elementi più significativi che inducono a ritenerle casi di operazioni realizzate sotto false bandiera.

La morte dell’editore Feltrinelli La scena del crimine è apparsa subito molto strana: tutti gli elementi che la componevano sembravano messi lì a dire «Feltrinelli deve morire mentre fa un attentato». Finanche Indro Montanelli dopo soli quattro giorni dal fatto scrisse che non si capiva come fossero andate le cose, «se [fosse stata] la bomba ad ucci-


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dere Giangiacomo Feltrinelli o se qualcun altro portò lì il suo cadavere per cucirgli addosso l’etichetta di dinamitardo» («Corriere della Sera», 18 marzo 1972). Da subito tutti pensarono o dissero che non reggeva la versione più immediata, cioè che il fondatore dei Gap1 fosse saltato in aria mentre preparava un attentato al traliccio numero 71 di Segrate. Si disse che avrebbe voluto far restare al buio tutta Milano che in quei giorni ospitava il congresso del Partito comunista – un «dispetto» incomprensibile se si pensa che il PCI pochi mesi prima (all’inizio del 1971) aveva avvisato Feltrinelli del progetto di Ordine Nuovo di ucciderlo nella sua casa austriaca di Oberhof, come ha documentato la sentenza-ordinanza del giudice Guido Salvini sull’eversione nera in Lombardia. Dopo essere stato oggetto di varie provocazioni che tentavano di identificarlo come il mandante delle bombe di Milano, Feltrinelli avrebbe deciso un’inutile azione terroristica con il rischio di farsi scoprire proprio mentre erano in corso le indagini sulla pista nera per gli atti di violenza che la destra aveva orchestrato dalla seconda metà del ‘69. Il 4 marzo di quell’anno, infatti, il giudice di Treviso Giancarlo Stiz aveva emesso i mandati di cattura nei confronti di Pino Rauti, Franco Freda e Giovanni Ventura accusandoli di essere i mandanti della strage di Piazza Fontana. In questo contesto il gesto di Feltrinelli è privo di logica. Individuiamo alcune strane circostanze di questo caso.

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Gruppi d’Azione Partigiana.


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Le altre persone Con Feltrinelli c’erano almeno altre due persone quella sera.2 Se fossero stati suoi compagni di avventura, avrebbero provveduto almeno a ripulire la scena: avrebbero portato via il corpo del loro capo, avrebbero portato via il pulmino che si trovava proprio lì a fianco, le chiavi delle sedi dove poi fu ritrovato materiale dei Gap, i documenti di identità dell’editore. Il suo corpo fu trovato dopo una notte intera: un’organizzazione avrebbe provveduto a portare via il cadavere del suo capo.

La falsa carta d’identità Feltrinelli non era ricercato dalle autorità, quindi perché andare in giro con documenti falsi? È strano che un attentatore si preoccupi di portare con sé i documenti d’identità: la precauzione poteva avere un senso solo se lui avesse avuto paura di essere ammazzato. Anche pensando a una scelta dettata da un ossessivo senso di persecuzione, desta sospetto il fatto che il miliardario Feltrinelli non fu in grado di procurarsi una carta d’identità ben contraffatta. Quella che aveva con sé era grossolanamente falsificata, mancava perfino il timbro sulla foto.

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Sentenza ordinanza del giudice istruttore Giovanni Arcai sull’inchiesta relativa alle attività dei Gap e delle Brigate Rosse, 24 giugno 1976, Procura di Milano.


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Il taccuino e le foto Solo un dinamitardo pazzo si reca a compiere il suo lavoro portando in tasca l’agenda con nomi e indirizzi dei suoi amici. Lì c’era scritto che quella sera del 14 marzo aveva appuntamento con tali Merx del gruppo FARI e Bruno Gallo dei FAMO. È poi grottesco pensare che un uomo che va a piazzare bombe sistemi nel suo portafogli, insieme a un pacchetto di sigarette di marca Astoria riempito per metà di tritolo polverizzato e per metà di pezzi di metallo e dotato di una miccia a lenta combustione, la carta d’identità falsa e le foto di sua moglie, Sibilla Melega, volto noto a Milano, e di suo figlio Carlo, avuto da Inge Schontal. L’identificazione del cadavere fu velocissima: se il suo volto fosse stato sfigurato, quelle foto l’avrebbero comunque garantita.

Le cariche esplosive La scena mostra l’imperizia e finanche l’idiozia di un presunto esperto bombarolo. Alla base di un montante del traliccio era già sistemata una parte dell’esplosivo. A essa era collegato un filo che saliva lungo il traliccio fino all’altezza dove Feltrinelli si trovava per sistemare una seconda carica composta da tre candelotti e dove si presume volesse sistemare la sorgente elettrica rappresentata da una coppia di batterie e un orologio di marca Lucerne che doveva consentire l’innesco ad una ora X. Il terrorista avrebbe collegato così le cariche prima di averle sistemate. Se anche Feltrinelli avesse compiuto l’opera e


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il traliccio fosse saltato in aria, non avrebbe lasciato la città senza energia, come hanno sempre rilevato anche gli atti giudiziari. A poca distanza da Segrate, precisamente a San Vito di Gaggiano, la banda aveva inoltre minato un altro traliccio che però non esplose perché non era stato adeguatamente innescato. Conclude il giudice Arcai: «quello che rimane sconcertante nel quadro d’insieme dei due attentati di Segrate e di San Vito di Gaggiano è che l’uno si è verificato in anticipo coinvolgendo l’autore che ne rimane ucciso e l’altro è preparato in modo tale che in alcun modo sarebbe mai potuto esplodere l’intero congegno. Nessuno negherà che come attentato combinato era un vero disastro di organizzazione e di esecuzione».3

I timer I periti d’ufficio presero un abbaglio: dissero che l’orologio aveva la sola lancetta delle ore. La verità invece doveva essere capovolta: la lancetta delle ore era stata tranciata, compariva solo quella dei minuti. Precisò infatti nella sua consulenza di parte, l’ingegner Piazzesi: «Prendendo in esame l’orologio adoperato a Segrate, partendo dalla descrizione dello stesso [fatta dai periti d’ufficio], indicato di marca “Lucerna” e con l’unica sfera, quella delle ore, indicante le ore 13, (...) si trattava [in realtà] di un orologio marca “Lucerne”, e non “Lucerna”, e l’unica lancetta residua dell’orologio Lucerne è quella dei minuti e non quella delle ore. Di conseguenza, il massimo ritardo che 3

Cfr. nota 2, sentenza-ordinanza 24 giugno 1976, pag. 343.


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si sarebbe potuto ottenere era di 60 minuti e non di 12 ore, come affermato dai periti d’ufficio». Aggiungevano che «questa constatazione rendeva l’orologio Lucerne un reperto particolarmente singolare perché fondamentalmente diverso dagli altri due orologi che pure facevano parte della vicenda» (cioè quello di marca Logan trovato a Segrate e quello di marca «Bacovi» trovato al traliccio di San Vito di Gaggiano). Detto questo, i consulenti di parte evidenziarono anche che le lancette tolte dall’orologio Lucerne, quella delle ore e quella dei secondi, erano state tagliate alla base, operazione delicata eseguita con particolare cura, secondo «un modus operandi diverso da quello usato per gli altri due orologi repertati dai quali le lancette superflue erano state sfilate dalle rispettive sedi (per l’orologio Logan erano state sfilate dal perno centrale le lancette dei minuti, per l’orologio Bacon erano state sfilate in successione le lancette dei secondi e dei minuti)». Come se diverse mani fossero intervenute ad eseguire la scrupolosa operazione. Ebbe modo di parlare di questo «dettaglio» del timer anche l’ex brigatista Alberto Franceschini durante una audizione in parlamento (17 marzo 1999): «Il timer era in realtà un orologio nel cui quadrante veniva inserito un chiodo e veniva tolta la lancetta dei minuti; la lancetta delle ore, girando, nel momento in cui toccava il chiodo faceva scoppiare la bomba. La cosa strana è che nell’orologio di Feltrinelli, invece della lancetta dei minuti, venne tolta la lancetta delle ore. Non l’aveva fatto lui il timer, l’aveva fatto un’altra persona, il famoso Gunter, che non si è mai riuscito a capire chi fosse, era uno della Valtellina, un tipo strano, comunque il famoso Gunter. Per cui c’è quest’altra


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persona che non si è mai riuscita a rintracciare. Oltretutto c’è una storia interessante su Gunter, perché viene dalla Brigata di Dio, cioè partigiani bianchi. Potrebbe essere un personaggio con degli aspetti inquietanti, però sembra che sia morto». Franceschini accenna all’ipotesi che potrebbe essere lui il collegamento fra Carlo Fumagalli, l’ex partigiano bianco leader del Mar, un’organizzazione eversiva di destra responsabile di vari attentati in Valtellina, e Giangiacomo Feltrinelli. In tal caso, Gunter sarebbe sicuramente l’autore della trappola mortale.

Il corpo La causa della morte, secondo i periti d’ufficio, era stata «una emorragia acuta da sfacelo dell’arto inferiore destro». A loro avviso, «le lesioni riportate sul corpo di Feltrinelli erano avvenute in limine vitae». Secondo la «relazione di consulenza medico-legale», redatta per conto della famiglia di Feltrinelli da due luminari dell’epoca, il professor Gilberto Marrubini e il professor Antonio Fornari (il medico che ha dimostrato che Roberto Calvi non si suicidò, ma fu strangolato e poi appeso al Blackfriars Bridge) quelle lesioni erano avvenute intra vitam: scrissero che «sulla scorta dei caratteri macroscopici e istologici di alcune delle lesioni riscontrate sul cadavere, escludevano una immediata successione cronologica di tutte le lesioni osservate rispetto al verificarsi dell’esplosione e ciò perché alcune di esse presentavano fenomeni reattivi che inducevano a collocare la loro produzione in un tempo diverso ed antecedente all’unica esplosione».


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Tra le lesioni non compatibili con l’esplosione, c’era anche quella sede di «encefalo corrispondente al lobo temporale destro». Perché una cavità orbitale era «conciata» come da pugno o percossa. Feltrinelli sarebbe caduto a terra da un’altezza di circa tre metri e mezzo. Le perizie ufficiali spiegavano così la dinamica: mentre si trovava sul traliccio, a un certo momento, per distendersi o per sgranchirsi, appoggiò le mani (rimaste quasi illese dopo l’esplosione, come è possibile se stava maneggiando l’esplosivo?) sulle travi orizzontali dietro la sua schiena, movimento che portò il suo piede sinistro ad urtare contro la batteria-orologio disposta come timer: l’urto avrebbe causato l’incidentale contatto tra la lancetta dell’orologio e il perno infilato per chiudere il circuito, causando l’innesco del congegno e l’esplosione. Ma i periti di parte hanno contestato questa dinamica, ritenuta in contrasto con le leggi fondamentali della dinamica. Secondo loro, considerato che il corpo ed il complesso orologi-pile furono ritrovati all’interno del traliccio, le pile sotto la nuca, e che il filo uscente dalle pile formava un’ansa che appoggiava sopra la testa e terminava in un’altra estremità che appoggiava sopra il braccio sinistro, se l’orologio fosse stato pendente e se Feltrinelli fosse stato a cavalcioni del traliccio, il piede avrebbe urtato contro l’orologio, spingendolo verso l’esterno del traliccio stesso. Inoltre, se l’esplosione fosse seguita immediatamente all’urto, l’orologio, sia per il colpo del piede sia per effetto molto maggiore dell’esplosione, sarebbe stato proiettato con violenza in direzione del suolo, sempre all’esterno della base del traliccio e certamente non verso il punto dove è stato poi ritrovato.


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La configurazione del corpo e degli oggetti sarebbe stata necessariamente diversa: concludevano perciò che, a loro giudizio, appariva più plausibile l’ipotesi che le pile e l’orologio si trovassero in una tasca della giacca indossata da Feltrinelli. Dalle foto infatti, la giacca è rovesciata, la tasca aperta, pile e orologio sembrano appena usciti dalla tasca superiore sinistra. Il sopralluogo fatto a Segrate dai periti di parte, Maccararo e Bizzarri, mise subito in evidenza che il cadavere, se fosse caduto dall’alto, sarebbe stato ritrovato a pancia sotto e non supino. La caduta avrebbe dovuto procurargli ferite ma i testicoli, i denti, le mani erano illesi. Il 26 marzo 1972 il «Corriere della Sera», riferendo gli esiti della perizia di parte, scriveva che «guardando il traliccio [dal punto in cui poggiava la testa di Feltrinelli] sul secondo basamento in cemento di sinistra, a 4-5 centimetri da terra, è rimasta una macchia strisciata di sangue sullo stesso raggio di proiezione della gamba amputata [la destra]». In parole meno tecniche, «l’arto tranciato dall’esplosione è stato scaraventato lontano e nel suo allucinante volo a pelo di terra, ha sfiorato il basamento del traliccio, lasciandovi la scia di sangue che appare perfettamente parallela al terreno (...) se l’editore fosse stato scaraventato giù dal traliccio dallo scoppio, quella striscia avrebbe dovuto essere obliqua rispetto al terreno. Un’altra prova che l’esplosione è avvenuta a terra: la tomaia (la parte superiore nda) della scarpa che ancora calzava la gamba amputata risulta tranciata dal lato esterno (...)». C’è di più. Un errore commesso da Feltrinelli nel piazzare la carica non viene ritenuto possibile (tesi che il maresciallo Bizzarri sostiene fin dal giorno della scoperta del cadavere, cioè quando ancora non era stato nominato


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perito di parte): ne consegue che «quell’errore qualcuno deve averlo commesso per lui». Perché? La spiegazione tecnica è inconfutabile. Il dynamon è un esplosivo che salta solo se innescato: «Puoi sbatterlo per terra, puoi persino sparare contro il candelotto, non succede nulla». Se la carica che ha ucciso Feltrinelli fosse stata innescata, ossia se nel cavo elettrico che si suppone l’editore stesse maneggiando, passava la corrente, avrebbero dovuto esplodere anche tutte le altre cariche «piazzate» sulle gambe del traliccio. Ciò non è accaduto: «C’è da pensare quindi che la carica che ha dilaniato l’editore fosse isolata dalle altre, ossia avesse un suo esclusivo innesco. Perché? La risposta è la chiave per risolvere il caso». La vicenda è molto complessa e in questa sede non intendiamo affrontarla nei suoi infiniti particolari ma solo mettere in evidenza le incongruenze della versione ufficiale che ha nascosto e impedito di approfondire ben altra verità: Feltrinelli doveva morire in quel modo, perché la sua figura doveva incarnare il terrorista bombarolo. Qualcuno gli suggerì l’azione di Segrate per incastrarlo in un’operazione contro di lui? La sera prima sicuramente Feltrinelli aveva incontrato il leader del Mar, Carlo Fumagalli, proprietario di una carrozzeria che si trovava proprio vicino al traliccio di Segrate. Oppure, come suggeriscono altri, Feltrinelli fu portato sul traliccio tramortito (i periti di parte hanno messo in discussione anche la perizia tossicologica4) e poi hanno fatto esplodere il suo corpo in 4

«(...) Quanto all’asserita negatività di traccia di natura tossica o farmacologica, la pronunzia dei periti d’ufficio andava accolta con riserva», cfr. nota 2, sentenza-ordinanza 24 giugno 1976, pag.134.


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modo tale che potesse sembrare un incidente sul «lavoro»? Subito dopo il suo ritrovamento, si scatenò un dibattito politico infuocato, si parlò subito di omicidio (lo fecero giornalisti come Camilla Cederna e Eugenio Scalfari) e la versione ufficiale fu aggredita come una montatura: ma alla fine bisogna notare che tutto questo contribuì ad allontanare i riflettori dalla scena del crimine. Nella sua sentenza ordinanza, il giudice Giovanni Arcai scrive una lucidissima frase: «È chiaro che qui si parlerà della verità istruttoria, vale a dire di quella verità che alla luce del probabile si accorda con le risultanze istruttorie ed è tuttavia evidente che la verità istruttoria può talora non coincidere con la verità vera, quella cioè che ha una solo faccia e che può essere colta solo nel momento della sua verifica materiale e, quindi, quasi mai dal Giudice che interviene solo dopo che quella verità ha assunto altre facce attraverso le testimonianze, i rilievi obbiettivi, le ricostruzioni peritali, le interpretazioni più o meno corrette». La morte di Feltrinelli ha assunto la faccia «dell’incidente sul lavoro» ma forse è stata una delle operazioni meglio riuscite di falsa bandiera.

L’omicidio Calabresi Il commissario Luigi Calabresi stava seguendo una pista per cercare di capire l’origine di traffici di armi e di esplosivi che avrebbe potuto svelare scenari inediti anche sugli autori della strage di Piazza Fontana – forse la stessa individuata dall’editore Giangiacomo Feltrinelli? Pochi giorni dopo la sua uccisione (17 maggio 1972),


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il Commissario avrebbe dovuto incontrare i magistrati per riferirgli l’esito delle sue indagini: ma dal cassetto della sua scrivania alla Questura di Milano sparirono quei delicati rapporti. Era giunto al cuore del segreto della strage e dei traffici? Era arrivato ad accertarne la provenienza e, magari, ad identificare chi li alimentava per rifornire i terroristi? Il giudice Antonio Lombardi, che ha seguito l’inchiesta sull’attentato alla Questura di Milano del finto anarchico Gianfranco Bertoli (stipendiato dal SIFAR e legato a Gladio, sigla 03755), scrive che: «Nel corso delle indagini occasionalmente si è venuti a conoscenza dell’esistenza di un traffico di armi di grosse dimensioni del quale si stava occupando Calabresi poco prima che fosse ucciso. Gli atti relativi a questa indagine, in fase di continuo sviluppo, sono stati stralciati dal presente procedimento per motivi di riserbo istruttorio».6 Ma dallo stralcio non sono nate, purtroppo, ulteriori indagini. Secondo un uomo dell’Anello, il servizio segreto clandestino che ha operato in Italia dal Dopoguerra almeno fino agli inizi degli anni Ottanta, «la struttura [l’Anello] sapeva che il commissario Calabresi era stato assassinato non certo per il caso Pinelli ma perché aveva scoperto il traffico di armi. Pinelli, Lotta Continua ed altro servivano a copri5

«Negli archivi dei servizi, il giudice Lombardi trova tracce di pagamenti fatti a Bertoli che usufruisce della sigla di copertura TR031, nome in codice “Negro”. Bertoli è nel libro paga del SIFAR fin dai primi anni Sessanta.» Omicidio Calabresi e strage alla Questura di Milano: un contributo di Carlo Amabile sulle connessioni esistenti, in www.misteriditalia.it. 6 Ibidem.


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re la verità».7 Il bollettino della FNCRSI (Federazione Nazionale Combattenti Reduci della Repubblica Sociale Italiana), diretto da Romolo Giuliana, scriveva qualcosa di simile: «L’assassinio di Calabresi, anche se materialmente eseguito da un gruppo di anarchici o terroristi di sinistra, nasce dal clima creato al centro e che si serve proprio di questi personaggi come comparse gratuite». Il telefono di Calabresi era intercettato, come quelli del procuratore capo di Milano, Adolfo Beria D’Argentine, e del Procuratore generale Luigi Bianchi D’Espinosa (così avverrà per l’utenza della testimone oculare dell’omicidio Calabresi, Margherita Decio). Chi ordina le intercettazioni telefoniche ha un nome e un cognome: è l’ex commissario di polizia Walter Beneforti ma la mente dell’operazione di spionaggio, dice l’uomo dell’Anello, è Tom Ponzi, il più fascista tra gli investigatori: «So che le bobine furono consegnate a Titta [indicato con il capo operativo dell’Anello] e una copia Ponzi la portò nel suo archivio in Svizzera. Lo scopo delle intercettazioni era la paura che le persone in questione potessero parlarne con qualcuno». Effettivamente, le 12 casse di bobine telefoniche spiccarono il volo verso la Svizzera dove Ponzi aveva il suo archivio.8 Quando il giudice istruttore Domenico Sica, sul cui tavolo finì l’inchiesta sulle intercettazioni, andò per capire quali carte vi fossero conservate, non 7

Conversazione con un agente dell’Anello risalente al gennaio 2007. 8 Durante una conversazione con il capitano del Sid Antonio Labruna, braccio destro di Maletti, il giornalista dell’Ansa Paolo Cucchiarelli gli chiese: «da dove partire per capire Piazza Fontana», lui rispose secco: «dall’archivio svizzero di Tom Ponzi».


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poté che girare i tacchi e tornarsene da dove era venuto. Le autorità gli negarono l’accesso.9 C’è poi un altro nodo su cui l’uomo dell’Anello confida i suoi ricordi, riguarda l’ultimo viaggio di Calabresi. È noto che pochi giorni prima di essere assassinato, il commissario andò in Veneto e a Trieste insieme all’ex que­store di Mila­no, Guida. Con lui, secondo la fonte il «Bollettino di controinformazione democratica dei giornalisti milanesi», 10 c’è il conte Giorgio Guarnieri, amico degli ordinovisti veneti, mentre, secondo la fonte «Dario» del Viminale, nella trasferta c’è anche il parlamentare Giuseppe Caron, stretto collaboratore di Flaminio Piccoli, e legato all’ordinovista Giovanni Ventura, al quale aveva fatto avere un prestito di denaro per la sua tipografia, la Litopress. «Su cosa stava indagando il commissario? Una centrale di grande traffico che dalla Germania vendeva armi, aerei, fucili ed esplosivi realizzando incredibili guadagni, con tangenti che alimentavano la parte oscura della politica, non solo internazionale. Il traffico si estendeva fino alla Rhodesia, al Sudafrica, ai portoghesi in Angola e a Israele. Ma in particolare Calabresi – rivelò “Dario” – aveva scoperto il ramo di quel traffico che dai circoli neonazisti di Monaco di Baviera (...) era diretto ai fascisti italiani e agli ustascia 9

Il pubblico ministero Domenico Sica terminò il suo lavoro nel 1979: prosciolse l’allora capo della polizia Angelo Vicari, il direttore dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno e un buon numero di Questori. 10 Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, Ponte alle Grazie, Milano 2012, pag. 599.


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jugoslavi, passando per centri di smistamento della zona di Trieste».11 Sempre secondo il testimone dell’Anello, Calabresi «si recò a Trieste con un elicottero dei Carabinieri, con i quali aveva collaborato. Lì incontrò il conte Guarnieri, amico di Freda, ed a Trieste trovò in una cava il deposito delle armi. Allegra ricevette ordine dal Prefetto di negare l’assenza del Commissario dal suo ufficio il 15 maggio; queste erano disposizioni ricevute e questo asserì Allegra agli inquirenti». Strano: i familiari del commissario ammisero che proprio quel giorno si era assentato da Milano ma li smentì proprio il Questore Allegra. Proprio a quest’ultimo si rivolge il deputato Mantica, durante la sua audizione in parlamento: «ricordo – ed è scritto in un libro – che il Calabresi pochi giorni prima di morire avrebbe confidato alla moglie di essere stato in Friuli o nel Veneto e di aver perlustrato un enorme deposito di armi e di esplosivi». Laconica la risposta di Allegra: «Questa notizia non corrisponde a verità. Non so se abbia sbagliato la moglie o chi ha scritto il libro».12 E poi aggiunge: «intendo attenermi ad elementi reali. Se devo esprimere un giudizio posso farlo ma deve rimanere tale. Perché avviene il 17 maggio l’omicidio Calabresi? Cosa avviene nel periodo che intercorre dal mese di marzo al 17 maggio? Ritrovamento del covo di Feltrinelli, dei Gap; di tutte le armi nelle cascine e così via; seguono le Brigate rosse; il 2 mag11

Ibidem. Audizione del questore Antonino Allegra presso la Commissione parlamentare sulle stragi, mercoledì 5 luglio 2000. 12


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gio scopriamo il covo di via Boiardo; qualche giorno dopo andiamo a via Ferrante Aporti a Torino, dove scopriamo il covo di Levate e compagni; il 17 maggio segue l’omicidio Calabresi. Qualcuno dei nostri si è anche impaurito: abbiamo dovuto trasferire qualcuno; altri hanno ritenuto che fosse, comunque, loro dovere restare; indubbiamente, però, un freno alle indagini lo ha dato perché ci si doveva occupare di un’altra cosa in quel momento più pressante». Quei ritrovamenti avrebbero potuto svelare ciò che Calabresi aveva capito sull’origine dei traffici? Infine, è interessante un ultimo riferimento dell’uomo dell’Anello al caso Calabresi: una delle questioni più oscure riguarda il caos di reperti trovati sulla scena del crimine:13 13

«Le indagini sull’omicidio accertano che due proiettili calibro 38 vengono sparati al capo e alla schiena da un pistola Smith & Wesson a canna lunga. Solo il 28 maggio 1972 un abitante di via Cherubini [la strada dove Calabresi fu ucciso], Federico Federici, consegna un proiettile calibro 38 che afferma aver trovato a 40 metri dal punto dell’omicidio. Qualche giorno prima era stato trovato un proiettile Beaux calibro 7,65. Ma le indagini si concentrano su un terzo proiettile, un Fiocchi calibro 38. Quest’ultimo non è mai stato formalmente trovato. C’è, anche se non se ne parla in nessun rapporto di polizia e carabinieri. Di quel proiettile esiste una foto in bianco e nero. Il 10 giugno 1972, la Questura invia alla Procura un dettagliato rapporto in cui ricostruisce la dinamica dell’attentato e nel quale si parla dell’esistenza di 4 proiettili oltre al frammento rinvenuto nel corpo del commissario. Viene repertato come “proiettile rinvenuto in ospedale”, è simile a quello ritrovato dal signor Federici? Sui proiettili rinvenuti inizia uno strano balletto fino ad arrivare al 1997 quando una nuova perizia viene eseguita dal professor Giorgio Accardo, direttore del laboratorio di fisica dell’Istituto centrale del restau-


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«intervenimmo come spazzini: portammo via un proiettile, per creare il caos». Il delitto Calabresi si inserisce in uno scenario intricato, fitto di risvolti che rendono credibile l’ipotesi di «omicidio derivativo», cioè «preso da altri, voluto da terzi soggetti, da un escludersi in collegamento o infiltrati tra i reali autori»,14 dunque un caso sul quale potrebbe sventolare una falsa bandiera.

L’omicidio di Peppino Impastato Fin dalle prime ore successive all’assassinio del giovane Peppino Impastato qualcuno tentò di depistare le indagini con lo scopo di accreditare l’ipotesi che si fosse trattato di un attentato-suicidio, sulla falsa orma della morte mai chiarita dell’editore Feltrinelli. Questa grande deviazione della verità, contrastata dai giudici Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto, dalla madre e dal fratello di Peppino e dal lavoro intelligente dei suoi compagni di militanza che diedero vita nel 1997 al Centro siciliano di ro di Roma, il quale utilizza un metodo di elaborazione informatica di fotografie in grado di ottenere risultati che evidenziano le caratterizzazioni morfologiche delle superfici e consentono analisi delle improntature dei proiettili. Al termine del lavoro del professor Accardo, poi ripreso dal professor Ugolini, si stabilisce che “le improntature dei due reperti si dimostrano incompatibili con gli spari da una stessa pistola e con la successione di colpi (testaschiena)”». G. Amabile, Omicidio Calabresi, cit. 14 Rapporto Ros: Omicidio Calabresi: analisi degli elementi suscettibili di essere interpretati quali indicativi di un assassinio derivativo, 24 novembre 2000, Procura di Brescia, Atti processo per la strage di Piazza della Loggia.


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documentazione (poi Centro Impastato), è stata ampiamente documentata dall’indagine della Commissione parlamentare Antimafia,15 raccolta poi in un bel libro dal titolo significativo: Peppino Impastato. Anatomia di un depistaggio.16 L’assassinio del leader di Radio Aut si inserisce sullo sfondo delle trame mafiose e dei rapporti mafia-istituzioni «che cercavano di fare del territorio di Cinisi e Terrasini un crocevia internazionale, un porto franco della democrazia»17 ma trova inquietanti legami anche con vicende non solo siciliane. Infatti, Peppino Impastato e i suoi amici avevano fatto un meticoloso lavoro di indagine sulla presenza di campi paramilitari nei dintorni di Cinisi e sul ruolo di significative frange dell’estremismo neofascista in Sicilia: subito dopo la sua uccisione, i Carabinieri, in quei giorni ai vertici della Legione di Palermo operava il Colonnello Antonio Subranni, il vero motore delle indagini sul caso, effettuarono una perquisizione della casa di Peppino portando via numerose buste di documenti, «come denunciarono i suoi amici e suo fratello. Alla Commissione antimafia arrivò parte di quel materiale – sulla copertina c’era la scritta: Atti sequestrati informalmente presso l’abitazione di Peppino Impastato – e tra le carte c’era anche un volantino di Lotta Continua, probabilmente scritto dallo stesso Impastato, che censurava l’uso strumentale di sigle di 15

La relazione finale fu approvata il 6 dicembre 2000. Presentato da Giovanni Russo Spena, con contributi di Giuseppe Lumia, Nichi Vendola, Michele Figurelli, Gianfranco Donadio, Enzo Ciconte, Antonio Maruccia, Umberto Santino Editori Riuniti University Press, Roma 2012. 17 Michele Figurelli, Peppino Impastato, cit. pag. 20. 16


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sinistra in riferimento alla strage di Alcamo Marina,18 ipotizzando al tempo stesso che quella strage potesse essere collegata a contesti torbidi e misteriosi. Vennero fuori nel tempo altri reperti: Impastato e i suoi amici si erano occupati testardamente di traffici internazionali di stupefacenti e di traffici d’armi. Cioè il gruppo di Radio Aut aveva lavorato molto e su molti fronti».19 Non è l’unica sottrazione di documenti: nei sotterranei del Palazzo di Giustizia di Palermo, «agli atti del polveroso fascicolo sull’omicidio Impastato sono rimaste solo alcune foto che ritraggono i poveri resti dilaniati di un uomo. Non si trovano neanche le foto del secondo sopralluogo, effettuato quattro giorni dopo il delitto».20 Il quotidiano «Lotta Continua» l’11 maggio 1978 pubblicò un articolo dal titolo «V’ammaru u’capo, ora po’essiri ch’u’arrissittati anticchia» nel quale viene esplicitamente criticato [...] l’indirizzo delle indagini [...]. Quell’articolo indica le possibili ragioni della uccisione di Peppino e ripropone i nomi di Finazzo e Badalamenti (che dopo ventitré anni furono condannati come mandanti del delitto. I due 18

Il 27 gennaio 1976, ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani, all’interno della stazione dell’Arma dei Carabinieri furono uccisi il Carabiniere diciannovenne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta: durante la notte, con la fiamma ossidrica, fu forzata la porta e i due militi di guardia furono crivellati di colpi mentre dormivano. 19 La strage di Alcamo e l’omicidio Impastato, intervento di Gianfranco Donadio, Procuratore nazionale antimafia, 18 febbraio 2012, Rainews24. 20 S. Palazzolo, I pezzi mancanti, Laterza, Bari 2010, nelle pp. 3-10 ricostruisce sinteticamente ma con grande efficacia la vicenda Impastato.


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imputati sono deceduti prima della conclusione del processo, ignoti gli esecutori, nda) ma soprattutto adombra l’ipotesi che gli stessi carabinieri del Reparto operativo sapessero quale fosse la causa della morte di Peppino, come si comprende dalla frase assertiva rivolta ai suoi amici da un carabiniere, durante una pausa degli interrogatori in caserma: «Vi hanno ammazzato il capo – gli dice – adesso speriamo che vi calmiate un po’». I contenuti dell’articolo portano immediatamente il Maggiore Subranni ad una denuncia per vilipendio e calunnia [...] alla quale non seguì nessun processo, confluì nel fascicolo relativo alla morte di Impastato ma non fu espletato, neppure nell’ambito di quest’ultimo procedimento penale, alcuno specifico accertamento»:21 si voleva evitare che fatti e circostanze scottanti emergessero da una eventuale inchiesta? Forse Peppino aveva capito molto dalle sue indagini, anche di cosa fosse accaduto nella casermetta di Alcamo, una strage segnata profondamente dai depistaggi che hanno coperto attività e personaggi indicibili: in questo senso il suo omicidio interessa diversi ambienti, non solo quello mafioso, che potrebbero aver agito coprendo altri interessi e attori dell’orribile assassinio del giovane Impastato. La strage della casermetta di Alcamo, del resto, ricorda molto un analogo fatto avvenuto in Belgio durante la notte di Capodanno del 1981, quando una caserma che ospitava corpi scelti della Gendarmeria subì un assalto dove morì un giovane gendarme: l’atto terroristico, naturalmente non rivendicato, fu attribuito ai misteriosi personaggi della banda del Brabante Vallone ma 21

Relazione Commissione Antimafia, cit. p. 198.


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in realtà è riconducibile ad una operazione condotta sotto falsa bandiera che si conferma una chiave di analisi molto importante per spiegare fatti apparentemente incomprensibili.

Finti manifesti anarchici a Piazza Fontana e il caso Nico Azzi Uno dei casi più clamorosi di false flags è stato la realizzazione dei finti manifesti anarchici in occasione della strage del 12 dicembre 1969. Quel giorno, oltre alle bombe alla Banca dell’Agricoltura, furono collocati in altri punti della città diversi ordigni rimasti inesplosi: i manifesti, disseminati in luoghi strategici, cioè nelle vicinanze delle bombe non esplose, richiamavano grossolanamente quelli del maggio francese e inneggiavano alle lotte studentesche ed operaie. Stampati su uno sfondo bianco, riproducevano una versione stilizzata della fabbrica sulla cui ciminiera sventola la bandiera nera: in mezzo la scritta «Autunno ’69» e sotto la frase «L’inizio di una lotta prolungata». A Parigi, nel maggio del 1968, quel manifesto celebrava appunto «l’inizio di una lotta prolungata». A Milano si volle far credere che l’autunno delle stragi si aprisse all’insegna dello stesso slogan, la loro comparsa legava indirettamente i movimenti di lotta alle bombe di quella tragica giornata. Niente di più falso. L’operazione dei finti manifesti mirava a creare i presupposti per attribuire la responsabilità della strage agli ambienti della sinistra. La contraffazione fu realizzata


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ad arte da un architetto d’eccellenza: l’Aginter Press.22 Anche se gli investigatori si accorsero subito del trucco, tanto da stabilire che la carta proveniva dalla Svizzera e che il manifesto era ricollegabile ai mercenari dell’agenzia di Guerin Serac,23 la questione morì lì, cioè non fu mai presa in considerazione nelle sedi giudiziarie e l’inchiesta perse un elemento di conoscenza rilevantissimo sulla macchinazione orchestrata per realizzare la strage di Piazza Fontana e far credere che gli autori fossero diversi da quelli che effettivamente l’avevano progettata. Un caso di fallita operazione sotto falsa bandiera è quello della tentata strage al treno Torino-Genova. Il 7 aprile 1973 il terrorista nero Nico Azzi provò, fortunatamente senza successo, a far saltare in aria il convoglio ma rimase ferito nel maldestro tentativo di collocare l’ordigno. Azzi si chiude nella toilette della carrozza per innescare la bomba ma si distrae, forse ha paura, forse è troppo sicuro si sé, e fa esplodere il detonatore che lo ferisce. La vita dei passeggeri è salva. Aveva con sé il giornale «Lotta Continua» che avrebbe dovuto lasciare sulla scena del crimine per dirottare sulla sinistra la responsabilità di quel mezzo chilogrammo di tritolo. Era già stata programmata la manifestazione del Movimento sociale italiano che avrebbe dovuto gridare l’indignazione delle piazze contro i sovversivi rossi – anche dopo la strage di Piazza Fontana, il 14 dicembre, si tenne 22

Si veda Doppio livello, «Le intossicazioni», pp. 125 e sgg. Guerin Serac era il capo dell’Aginter Press. Per la ricostruzione della vicenda dei finti manifesti anarchici si veda P. Cucchiarelli, op.cit., pgg. 37-69.

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il corteo organizzato da tempo dal Movimento sociale con l’obiettivo di provocare disordini e favorire la proclamazione dello stato di emergenza. Alla manifestazione di Milano del 12 aprile 1973 parteciparono moltissimi giovani missini attrezzati con bombe a mano, le Srcm, a frammentazione di uso militare. Un giovane agente di Pubblica sicurezza, Antonio Marino, morì sull’asfalto di via Bellotti, oltre cento persone vennero ferite. Tutto era stato predisposto, tutto era programmato per «addossare la colpa degli incidenti agli “infiltrati comunisti”, come scriverà il giorno successivo il giornale di partito, il “Secolo d’Italia”, portando come prova il presunto rinvenimento di una tessera del Pci sul luogo da dove erano state scagliate le bombe a mano contro il cordone di polizia».24 Molto tempo dopo, l’estremista Giovanni Ferorelli, in un memoriale consegnato al procuratore di Bari Carlo Maria Capristo, confermò che la pianificazione era avvenuta circa un mese prima, quando Nico Azzi consegnò le bombe a frammentazione Srcm a tre attivisti neri, «Loi, Morelli e Petrini».25 Era stata preconfezionata l’accusa ai comunisti, proprio come vuole lo schema operativo delle false bandiere.

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V. Vinciguerra, La guerra politica, Opera, 2 agosto 1980. Si veda Doppio livello, «Le intossicazioni», 125 e sgg.


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