Cronaca

Immigrati, il ghetto nascosto nel cuore di Roma

Da 3 mesi a centinaia in una casa occupata: "Non abbiamo né luce né acqua". Ecco i superstiti di Lampedusa

2 minuti di lettura
ROMA - Lampedusa è al civico tre di via Curtatone, Roma centro, insieme con un pezzo d'Africa subsahariana. Nella vecchia sede dell'Ispra, Istituto per la protezione ambientale, più di 450 eritrei, profughi e rifugiati politici per lo più, sopravvivono, con una cinquantina di bambini.

dormono in terra, nei corridoi e nelle stanze-ufficio piene di polvere e insidiate dai topi. Asserragliati dietro la cancellata appena nascosta dallo sporco sulla vetrata, si danno il cambio, 40 alla volta, in difesa di quell'avamposto della disperazione nel cuore della capitale.
[[ge:rep-locali:repubblica:75776954]]
Giovani e giovanissimi. Sono i sopravvissuti alle traversate del Mediterraneo. Gli scampati ai pericoli delle marce nel deserto, ai maltrattamenti nei centri libici di detenzione, ai soprusi degli scafisti, hanno fatto i conti con l'accoglienza italiana, "segregati per mesi in condizioni inumane", racconta uno di loro. Si sapeva dell'insediamento di 500 eritrei ed etiopi al Collatino, in un palazzo abbandonato dal ministero del Tesoro. Si era detto, visto e scritto, dopo le sanzioni dell'Europa all'Italia, dei mille tra eritrei, etiopi, somali e sudanesi che alla Romanina, in uno stabile malmesso e pericolante dell'Enasarco, vivono da anni tra infiltrazioni d'acqua e mura cadenti.

E si conosceva la baraccopoli tirata su da un centinaio di eritrei ed etiopi a Ponte Mammolo. Ma ora spunta, nel cuore di Roma, un altro ghetto per migranti. Viene alla luce con un blackout provocato da qualcuno che, entrato negli interrati dal tombino di una strada vicina, ha tagliato i cavi nella cabina dell'azienda elettrica comunale, interrompendo il flusso di energia al palazzo. Così, da cinque giorni, quei migranti vivono senza luce e senza l'acqua delle vasche alimentate dalle pompe dell'autoclave, in condizioni disumane.

"Siamo vivi; è quanto basta", dice Yohanns Mhretaab, 23 anni sbarcato a Lampedusa nel maggio 2011 con altri 250 dannati della terra e del mare. "In quattro giorni di navigazione sono morti tre bambini e un giovane", racconta. "Avevo già provato nel 2009 ad approdare in Sicilia, sborsando sempre un migliaio di euro agli scafisti, ma, con gli altri, sono stato subito respinto in Libia su una nave italiana".

Da tre mesi e mezzo vivono lì, a due passi dalla stazione Termini. "Abbiamo un tetto, ora - dice Selam H. - ho dormito in strada per più di un anno". "Per mangiare andiamo alla mensa della Caritas, in via Marsala, vicino Termini o in via degli Astalli, dalle parti di piazza Venezia". "All'inizio - racconta don Mosè Zerai, il sacerdote eritreo presidente di Habeshia, l'agenzia che si occupa di assistenza ai rifugiati africani - l'immobile è stato occupato da un gruppo consistente di eritrei insieme al Coordinamento di lotta per la casa. Poi i migranti, con i movimenti per il diritto all'abitare, hanno sollecitato un incontro con il Comune e avviato un confronto con la prefettura". Giorni fa è arrivata la rassicurazione: "Restate lì in attesa di una sistemazione idonea".

Qualche ora dopo lo stabile è rimasto al buio. Un blackout per l'intero quadrante urbano c'era già stato. "È intervenuta l'Acea che ha riparato il guasto", ancora don Zerai, "ma nel palazzo di via Curtatone la luce non è più tornata". "Spero", dice, "che si trovi presto una sistemazione dignitosa e sicura per quelle famiglie". "Anche questo insediamento", aggiunge Emilio Drudi, collaboratore dell'Agenzia Habeshia, "è il risultato degli ultimi vent'anni di disinteresse: mancano una legge sul diritto di asilo e un sistema di accoglienza adeguato".

Già, l'accoglienza. Osservarli lì che, a decine, con buste stracolme di cenci, mano nella mano dei piccoli, arrancano per le scale buie già nel primo pomeriggio di una domenica uggiosa, richiama le immagini che sotto le feste il Tg2 ha trasmesso dal Centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa. "Si sono dimenticati di noi", si sfoga un ventenne. È un sopravvissuto al naufragio del 3 ottobre, alla strage di quasi 400 vite. È spaesato e impaurito. Per parlare esce e, sotto i fari della banca vicina all'ingresso del palazzo, confida: "Sarebbe stato bello avere ancora luce e acqua, ma stiamo meglio qui che nel nostro Paese perché non abbiamo perso la speranza di una vita migliore".