Milano, 2 marzo 2015 - 07:46

Ecco perché il nostro cervello funziona come Facebook

Lo studio di «Nature» sulle nostre sinapsi: creano tra i neuroni pochi legami fortissimi e una miriade di connessioni deboli. È la logica delle «amicizie» sul Social network

di Giuseppe Remuzzi

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Se qualcuno pensava che fosse Mark Zuckerberg ad avere inventato Facebook (l’avrebbe fatto con Eduardo Saverin, Andrew McCollum, Dustin Moskovitz e Chris Hughes i suoi compagni di stanza dell’Harvard University) dovrà ricredersi. Zuckerberg è partito dall’elenco degli studenti con tanto di foto - Facebook appunto - che le Università degli Stati Uniti distribuiscono a chi si iscrive e ne ha fatto un social network che in un baleno ha conquistato il mondo. In un certo senso però Facebook c’era già in natura, nel cervello di ciascuno di noi ben prima di Zuckerberg.

Un lavoro appena pubblicato da scienziati di Basilea e di Londra fa vedere come il nostro cervello funzioni proprio come un «social network». Le sinapsi - così si chiamano le strutture che consentono a ciascuna cellula nervosa di dialogare con le altre - stabiliscono legami molto forti fra ciascun neurone e pochissimi altri, ma quegli stessi neuroni hanno legami con moltissimi altri, questi ultimi però sono legami molto deboli. E così Thomas Mrsic-Flogel ha cominciato a chiedersi quali siano le regole che governano i rapporti tra le cellule nervose.
La risposta è più semplice di come ci si poteva aspettare soprattutto per chi abbia familiarità con Facebook. La cellula nervosa stabilisce legami forti con quelle (poche) simili a lei, con tutti gli altri neuroni i legami sono deboli anche se questi ultimi sono molti di più. Proprio come in Facebook; sei in contatto con tantissime persone ma a ben vedere la maggior parte di chi sta su Facebook ha una cerchia molto ristretta di amici speciali, con cui si hanno rapporti privilegiati. Ma perché proprio con quelli e non con altri?
Con questi amici ci sono legami forti e interessi comuni, insomma è un po’ quello che succede fra i neuroni che si assomigliano. In Facebook sono questi amici speciali che influenzano il nostro modo di pensare e le nostre scelte e solo questi pochi; tutti gli altri amici di Facebook contano meno anche se sono moltissimi. Ma come hanno fatto i ricercatori di Basilea ad accorgersi che l’organizzazione dei neuroni nel cervello assomiglia in un modo impressionante a quello che succede con i social network?

Hanno lavorato su un’area particolare del cervello, quella parte di corteccia che riceve impulsi nervosi provenienti dagli occhi e li trasforma in percezione visiva. Una volta scelta l’area su cui concentrare le loro osservazioni il problema era di capire chi fa che cosa dei centomila neuroni per millimetro cubo che popolano quella zona del cervello. Per farlo servivano strumenti sofisticati di risonanza magnetica da accoppiare a misure di elettricità. Insieme questi strumenti hanno consentito di stabilire che sono solo i pochi neuroni molto simili a influenzarsi reciprocamente e questo serve a organizzare in modo efficiente le informazioni che arrivano dall’esterno e ad amplificarle quando serve.
A questo punto Lee Cossell, uno degli autori dello studio si fa un’altra domanda. «Perché i neuroni hanno comunque anche un così gran numero di connessioni deboli?». Immaginiamo che in certe circostanze i neuroni debbano cambiare il loro modo di lavorare per adattarsi a situazioni che potrebbero richiedere reazioni immediate.
Un modo molto pratico per riuscirci potrebbe essere rafforzare le connessioni deboli che ci sono già e questo è probabilmente il segreto della plasticità del cervello e della sua straordinaria capacità di adattarsi in fretta a circostanze che cambiano. Succede anche con gli amici di Facebook, quelli con cui ci sono legami deboli? Non lo so per certo ma penso sia proprio così. Ma a cosa servono questi studi?
Quello che è stato fatto a Basilea e a Londra e che è appena pubblicato su Nature , potrebbe essere un primo passo verso la creazione di un computer capace di simulare l’attività del cervello, un sogno per adesso che un giorno però potrebbe realizzarsi. È molto più concreta invece la possibilità che questi studi aiutino ad avere più informazioni sulla schizofrenia e l’autismo per esempio, malattie che compromettono proprio le capacità dei neuroni di dialogare fra loro.

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