Milano, 15 aprile 2015 - 07:14

Renzi: prendere o lasciare. Se la legge non passa dovrò salire al Quirinale

L’apertura sul Senato Il leader disposto a trattare solo su alcune parti della riforma del Senato

di Maria Teresa Meli

Renzi (Ansa) Renzi (Ansa)
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ROMA Matteo Renzi non vuole fare forzature con la sua minoranza interna, né inasprire i toni della polemica, ma ciò non significa che non sia più determinato che mai, anche perché considera già vinta questa partita. All’assemblea di oggi chiederà ai deputati di votare sulla sua proposta che contiene due punti precisi: l’immodificabilità dell’Italicum e la richiesta ai parlamentari del Pd di non presentare emendamenti sulla legge elettorale voluta dal governo.


Prima della riunione il segretario ha in programma un colloquio con Roberto Speranza, che ha già rimesso il mandato di capogruppo a Montecitorio in Direzione e che potrebbe confermare le dimissioni. L’idea di Speranza è che, libero dai vincoli impostigli dal ruolo, potrebbe rafforzare la sua leadership nella minoranza. Però non ha ancora sciolto tutti i nodi e aspetta di parlare con il premier per compiere un passo definitivo. Spera di convincerlo che «la spaccatura del Pd sull’Italicum potrebbe diventare un problema per la segreteria». Ma da quell’orecchio Renzi non ci sente. In compenso ha già fatto sapere al capogruppo che non vuole farlo andare via, nonostante sia uno dei leader della minoranza, ma che a questo punto sta a lui decidere il da farsi.
Per quel che riguarda invece il suo, di programma, il premier è più che sicuro: «Il confronto è durato un anno, il testo della legge è stato modificato, se ora dico che non ci sono margini di manovra non lo faccio per forzare ma perché è arrivato il momento di decidere. Adesso si vota nel gruppo e l’esito di quel voto sarà vincolante per tutti».


Renzi è convinto di avere i numeri. A suo giudizio «la maggioranza sull’Italicum è blindata, anche perché alla stessa minoranza non conviene esasperare i toni». E infatti Renzi dà per scontato che una grossa fetta di quell’area in Aula voterà «sì» alla riforma della legge elettorale: «Una decina voterà contro e qualche altro magari se ne andrà», sostengono nello staff del premier.
Ma gli scrutini segreti rischiano di essere tanti. E segreto sarà, con tutta probabilità, anche il voto finale. Quindi il rischio di possibili imboscate trasversali è sempre dietro l’angolo. Eppure il segretario del Pd è ugualmente convinto che alla fine prevarranno le ragioni della prudenza: «Se la legge non passasse, io non potrei fare altro che trarne le inevitabili conseguenze e salire al Quirinale da Mattarella». Una frase, questa, che il presidente del Consiglio ha ripetuto a diversi interlocutori in questi giorni e che induce alla cautela quanti vogliono evitare lo scioglimento anticipato delle legislatura e l’incognita delle urne.
Quanto alla fiducia, per ora resta uno spauracchio. Agitato più che altro per raffreddare i bollenti spiriti degli oppositori interni, che, per la verità, con il passar delle ore, si stanno facendo sempre più tiepidi. Insomma, la fiducia, in realtà appare assai improbabile, anche se i renziani difendono questo strumento e non accettano le critiche di chi dice che utilizzarlo per l’Italicum sarebbe una forzatura inaudita. Questo il ragionamento che viene opposto alle critiche: «La fiducia è un atto eminentemente politico e che cosa c’è di più politico di una riforma elettorale voluta dal governo?».


Insomma, il premier non lascia più margini di mediazione. Il suo è un «prendere o lasciare», posto in maniera urbana ma molto netta. La minoranza lo ha capito e non si fa troppe illusioni. Ci potrebbe essere una sola apertura, perché lo stesso premier, benché si senta già vincitore anche di questa partita, non vuole strafare. E l’eventuale apertura potrebbe riguardare un altro fronte. Quello della riforma costituzionale che dalla Camera tornerà prossimamente a Palazzo Madama. Lì (anche se la cosa non è stata ancora decisa) potrebbero essere accettate delle modifiche. Ovviamente solo nella parti del testo che sono state cambiate dall’assemblea di Montecitorio, perché ciò che è già passato nella stessa versione sia al Senato che alla Camera non è più emendabile.

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